Lawrence Joseph è nato a Detroit nel 1948 in una famiglia di immigrati libanesi e siriani. Giurista e docente in molte università americane, attualmente insegna legge alla St. John’s University School of Law di New York. Joseph crive poesie fin da ragazzo. È autore di numerose raccolte di versi tra cui «Into It»; «Codes, Precepts, Biases, and Taboos: Poems 1973-1993»; «Before Our Eyes»; «Curriculum Vitae»; «Shouting at No One». Inoltre ha scritto «Lawyerland», opera in prosa, e si è conquistato una Guggenheim Fellowship e due National Endowment for the Arts. Sposato con la pittrice Nancy Van Goethem, vive a New York. I suoi versi, inediti nel nostro Paese, sono ora presenti nella raccolta Nuova poesia americana (Volume II) pubblicata da Black Coffee con la curatela di John Freeman e Damiano Abeni (pp. 220, euro 13,00, traduzione di Damiano Abeni), accanto a quelli di Kim Addonizio, Garrett Hongo, Kay Ryan, Aracelis Girmay e Kevin Young.

Il poeta Lawrence Joseph

Nel suo percorso creativo Detroit sembra occupare uno spazio particolare, come illustrato anche dai versi pubblicati ora in Italia nella raccolta «Nuova poesia americana». Cosa ha significato crescere in quella città negli anni cinquanta in una famiglia libanese?
I miei nonni erano libanesi e siriani cattolici emigrati negli Stati Uniti alla vigilia della Prima guerra mondiale e che si erano stabiliti a Detroit dove avevano aperto un piccolo negozio di alimentari. Sono stati tra i primi immigrati dal mondo arabo ad arrivare in città, dove negli anni Venti sono nati i miei genitori. Sebbene Detroit sia ora la città americana con la più grande popolazione di discendenti da emigrati dal Medio Oriente, a causa delle leggi restrittive sugli ingressi nel Paese la comunità araba locale era piuttosto piccola fino alla metà degli anni Sessanta. Crescendo, siamo stati trattati in modo simile agli italoamericani, che rappresentavano però un gruppo molto più ampio, anch’esso mediterraneo e cattolico. La mia famiglia, che si estendeva a zii, zie e cugini, era numerosa e unita. Avevamo tutto un nostro mondo intorno, ma crescevamo da americani, nipoti di immigrati mediorientali arrivati in America molto poveri.

Questi diversi aspetti della sua biografia familiare sembrano emergere da una delle sue poesie più note, «Negro sabbiato», dove scrive: «io sono il negro dalla pelle chiara, con gli occhi neri e un’aria difficile da inquadrare (…) educato quanto basta da passare da bianco, libanese quanto basta per combattere un fratello…».
«Sand Nigger» è stata scritta nel 1983, mentre infuriava la guerra civile in Libano. La prima parte della poesia descrive ciò che accade «in casa», in famiglia. I versi conclusivi si spostano invece sulla realtà «fuori casa». L’«io» in questa poesia – come ho cercato di fare in tutte quelle che ho scritto – è di fantasia, ma attinge almeno in parte a esperienze personali reali, come farebbe un romanziere con un personaggio che parla in prima persona. La poesia parla essenzialmente di coloro che in una società sono percepiti in termini razziali, sono identificati razzialmente, spesso con un odio che può spingere alla violenza, persino omicida.

La Detroit che descrive nelle sue poesie, come in «Woodward Avenue» – la via che portava alle fabbriche, nda- è insieme il simbolo del capitalismo industriale e della catena di montaggio, lei stesso ha lavorato per un certo tempo alla Chrysler mentre studiava legge, e delle rivolte urbane, come quella del 1967 di cui è stata testimone drammaticamente anche la sua famiglia. Cosa rappresenta per lei questa città?
Sono nato nel 1948, quando Detroit che era la quinta città degli Stati Uniti, e una delle più grandi e importanti del Paese. Detroit rappresenta prima di tutto la mia storia e quella della mia famiglia e la storia della città che loro ed io abbiamo ereditato: una storia di lavoro, capitale industriale, classe e razza. Detroit rappresentava l’intera struttura del capitale industriale del XX secolo, quello che Gramsci chiamava «fordismo». I miei nonni arrivarono intorno al 1912. Dal 1910 al 1930, la popolazione di Detroit crebbe di oltre un milione di persone, assorbendo gente diversa per razza, fede religiosa e classe: immigrati europei, bianchi del Sud, neri del Sud diseredati. Durante la Seconda guerra mondiale, la città divenne l’«arsenale della democrazia»: più della metà degli armamenti per gli alleati furono fabbricati proprio qui. E nel 1943, durante la guerra, Detroit fu teatro di una violenta rivolta razziale. Nel 1967, al culmine della guerra del Vietnam, la città esplose in un’insurrezione civile. Nel 1974, nel pieno dei conflitti petroliferi internazionali, l’economia di Detroit crollò, dando il via a una depressione economica che da queste parti non è ancora finita. Al punto che Detroit è diventata il simbolo del declino industriale americano. La sua storia e le sue geografie attuali, reali e metaforiche, sono state parte integrante della mia immaginazione sin da quando ero bambino.

C’è poi la Detroit della musica, di cui ha scritto più volte – dal jazz al soul fino al suono della Motown e gli incroci con i ritmi mediorientali di Yusef Lateef, anch’egli operaio di fabbrica prima che musicista. La musica racconta una parte della storia della città ma anche della sua poesia?
L’influenza della musica di Detroit, a partire dalla Seconda guerra mondiale – non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo – è, per molti versi, senza pari. Ci sono cresciuto dentro, era nell’aria, per le strade, ovunque. Gran parte del senso del suono, del ritmo e del sentimento della mia poesia deriva da questo.

La geografia emotiva della sua poesia attraversa però anche altri luoghi: New York dove si è trasferito negli anni Ottanta e il Libano delle sue radici che in quello stesso periodo era scosso dalla guerra civile. Queste diverse dimensioni sembrano coincidere nel suo lavoro successivo all’11 settembre e all’inizio delle guerre americane in Medio Oriente. Quale il suo percorso da questo punto di vista?
Detroit, New York, il Libano e le guerre americane in quell’area sono stati i motivi centrali del mio lavoro da quando io e mia moglie ci siamo trasferiti a New York nel 1981, quasi quarant’anni fa. Prima dell’11 settembre c’è stata la cosiddetta «Guerra del Golfo» del 1990/91: la più vasta operazione militare degli Stati Uniti dalla guerra del Vietnam. In quel periodo il capitale globale americano aveva iniziato la sua trasformazione in tecno-capitale, il primo passo verso lo sviluppo di uno Stato militare-industriale-aziendale negli Stati Uniti. Ho prestato grande attenzione a quei passaggi e ho cercato un linguaggio che tenesse insieme il pensiero, i sentimenti e l’opposizione morale a quanto stava accadendo. Poi è arrivato l’11 settembre: allora vivevamo, e viviamo del resto ancora, a soltanto un un isolato di distanza da Ground Zero». Ne ho scritto, come delle violenze successivamente scatenate dagli Stati Uniti a partire dall’invasione barbarica dell’Iraq nel 2003, vicende le cui conseguenze pesano ancora sull’intero pianeta.

Si tratti dello sfruttamento in fabbrica o delle guerre, la denuncia della violenza occupa uno spazio preciso nella sua poesia.
Fin dall’inizio – negli anni Settanta, nda – ho scritto per testimonianza morale e senso di giustizia, cercando di mettere a fuoco le strutture di potere violento e il razzismo sistemico negli Stati Uniti: la distruzione del lavoro, l’odio per i poveri e i più deboli, il modello aziendale e violento che è alla base delle guerra imperiale americana. Allo stesso modo, in tutto il mio lavoro c’è la ricerca di un linguaggio intimo, sensuale, di bellezza e amore, di colore e luce.

Lei cita spesso Eugenio Montale come un saldo punto di riferimento. Sente che ad accomunarvi è la prospettiva della «poetica delle cose», di una poesia che non è solo espressione di un bisogno di confessione individuale ma costruisce un dialogo con l’interlocutore, un racconto dell’esperienza umana?
Montale è stato molto importante per me. Il suo lavoro ha ispirato molto di ciò che penso e provo riguardo alla poesia. Le poesie di Montale hanno una qualità profondamente sensuale: amava, come me, il mondo fisico. Sentiva, come me, che una poesia è una conversazione con altri poeti, ma anche una conversazione intima con un’altra persona. Le sue poesie intrecciano il privato e il pubblico, l’esterno e l’interno, lo storico e l’individuale, il trascendente e l’immanente come tutti questi elementi si intrecciano nella vita stessa. Nella mia poesia aspiro a fare ciò che ha fatto lui: scrivere poesie che racchiudano la vita del mio tempo.