Già di primo mattino Carlo Bonomi fiuta l’odore del sangue. Come un avvoltoio è pronto a infierire sul governo morente. Nel video incontro con Giuseppe Conte sul Recovery fund il presidente di Confindustria racchiude la summa delle critiche ad un esecutivo che gli industriali hanno sempre criticato e non vedono l’ora di sostituire in nome di quella «competenza» sempre richiesta che a viale dell’Astronomia fa rima con Mario Draghi e le «larghe intese».

Subito dopo l’incontro viene divulgato un giudizio durissimo sul Piano nazionale di ripresa e resilienza come fosse stato scritto da totali incapaci.

Il documento si apre accusando il governo di aver scritto un piano con «mancata conformità con le linee guida indicate dalla Ue»: «ogni riforma strutturale e linea di intervento delle 6 missioni strutturali», secondo Confindustria, deve essere «declinata secondo una stima precisa degli obiettivi quantitativi che si intende ottenere rispetto alle risorse impegnate».

Le critiche sono soprattutto sul metodo scelto, mentre sul merito si parte sempre dallo stesso punto, come una litania ormai da decenni. «Le riforme strutturali devono essere quelle indicate da anni nelle raccomandazioni periodiche all’Italia, quindi prima di tutto quelle del mercato del lavoro, della Pa e della giustizia e ogni intervento va progettato seguendo questa metodologia», ribadisce alla noia Confindustria.

La priorità è naturalmente «la riforma degli ammortizzatori sociali e quella delle politiche attive del lavoro» ma- in pieno stile Bonomi – «aprendo al coinvolgimento delle agenzie private. L’obiettivo della proposta è la valorizzazione del capitale umano e l’aumento dell’occupabilità, attraverso il potenziamento dell’assegno di ricollocazione» di renziana e inutile memoria e «il contratto di espansione». «La scelta che riscontriamo nel piano invece – rileva l’associazione degli industriali – , non solo sembra essere quella di basarsi ancora essenzialmente sui Centri Pubblici per l’Impiego (orrore, ndr), ma, soprattutto, non viene indicata la direzione che il governo intende intraprendere sulla riforma degli ammortizzatori sociali» che sarebbe dunque troppo favorevole ai lavoratori.

In più Confindustria chiede più infrastrutture, soprattutto strade, alla faccia dell’impatto ambientale. Se le «infrastrutture sono un «capitolo essenziale», Bonomi chiede di sbloccare il decreto Semplificazioni – l’unico che è piaciuto a Confindustria – perché le nuove «procedure della pubblica amministrazione» tagliate di netto «al momento non sono state declinate».

L’accenno alla presenza delle parti sociali nell’implementazione dei progetti è dunque solo un corollario e l’unico punto di contatto con la posizione dei sindacati con Cgil, Cisl e Uil che avevano criticato la governance del piano.

Giuseppe Conte si aspettava un trattamento simile. E per questo aveva subito cercato di smarcarsi sostenendo che il Piano «non è del governo ma del sistema-Italia». Nel pomeriggio invece i ministri provano a rintuzzare i colpi di Bonomi, ma sono già azzoppati dalla notizia delle dimissioni dell’esecutivo. Gualtieri promette di «colmare rapidamente la lacuna» sulla governance, mentre Patuanelli rimarca come nel piano in realtà «sono dettagliati tutti gli step, l’intensità, le annualità e la messa a terra degli investimenti». Sul capitolo lavoro ci sono «circa 7 miliardi sul lavoro, sottolinea Catalfo, e si «investe fortemente sulla formazione e sulle nuove competenze, collegando tutti gli strumenti di sostegno al reddito passivo a politiche attive del lavoro».

Bonomi avrà letto le dichiarazioni sorridendo: la sua speranza è che il Recovery ora passi di mano. A ministri più amicui di Confindustria.