Oggi, domenica 3 gennaio, ricorre il primo anniversario dell’assassinio del generale Qassem Soleimani, ucciso da un drone statunitense nell’aeroporto di Baghdad con altri miliziani sciiti. I vertici di Teheran non avevano ceduto alla provocazione, limitandosi a lanciare qualche missile contro due basi statunitensi in Iraq.

Il vero danno collaterale dell’omicidio di Soleimani erano stati i passeggeri del volo di linea ucraino colpito, per errore, da due missili dei pasdaran l’8 gennaio 2020. Ora, le famiglie delle 176 vittime (di cui 82 iraniani e 63 canadesi) riceveranno 150mila dollari ciascuna in compensazione.

IN QUATTRO ANNI alla Casa bianca il presidente Trump è arrivato più volte sull’orlo della guerra con Teheran. I danni peggiori li ha però inferti all’economia della Repubblica islamica, mandando a monte l’accordo nucleare, varando nuove sanzioni e imponendo l’embargo al petrolio iraniano.

Così facendo, in questi quattro anni la valuta iraniana (il rial) ha perso l’85% del suo valore. Secondo l’Fmi, in Iran l’inflazione è al 34,2%, la disoccupazione è dichiarata al 16,3% ma è ben più alta perché l’ufficio statistiche di Teheran ritiene occupato colui che svolge anche solo un’ora di lavoro alla settimana.

Il sistema economico iraniano è inefficiente e la corruzione è diffusa anche ai livelli alti della dirigenza politica, tant’è che il fratello e consigliere di Rohani è stato condannato a cinque anni e la serie tv Aghazadeh, in onda su Namava (la versione iraniana di Netflix) e in voga durante il lockdown, prende di mira i figli di questa élite corrotta.

SE ROHANI non è riuscito a mettere in atto le riforme e non ha mantenuto le promesse elettorali, è stato per un insieme di fattori. La conseguenza è che l’elettorato della Repubblica islamica si è spostato a destra.

Secondo il sondaggio realizzato per telefono da IranWire tra il 22 e il 28 ottobre scorso su 1.136 iraniani al di sopra dei 18 anni, Rohani avrebbe solo il 25% dei consensi (a febbraio 2016 era al 42). Il 46% degli iraniani disapprova totalmente il suo operato, una percentuale che sale al 56 tra i laureati.

Questi dati sono rilevanti: venerdì 18 giugno gli iraniani andranno alle urne per eleggere il successore di Rohani. Secondo il sondaggio, in pole position ci sarebbe l’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad con il 37% delle preferenze. Si tratta di un dato aggregato: gode del consenso del 50% degli aventi diritto nelle aree rurali e del 33% degli abitanti delle aree urbane; a votarlo sarà il 49% di coloro che non hanno un titolo di studio universitario e solo il 19% dei laureati.

NEL SONDAGGIO, l’ex presidente Ahmadinejad è seguito con un certo distacco dal presidente del parlamento Mohammad Bagher Ghalibaf, già comandante delle Guardie rivoluzionarie e sindaco di Teheran, che ha il 10% delle preferenze.

Irrilevante il peso degli altri candidati: Saeed Jalili, ex segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale (3% delle preferenze); l’ex presidente del parlamento Ali Larijani (2%); e il politico riformatore Mohammadreza Aref (2%).

Oltre ai sondaggi, dovremo tenere conto del ruolo del Consiglio dei Guardiani, che ha il potere di squalificare i candidati indesiderati, e dell’affluenza alle urne.

Sinonimo di legittimità delle istituzioni, l’affluenza alle urne è stimata da IranWire al 44%, una percentuale bassa che riflette la convinzione di buona parte degli iraniani di non poter contribuire, con il voto, a risolvere i problemi del paese.