«Come dimostra il problema dei rifiuti anche da voi, l’emergenza ambientale riguarda il nord e il sud del mondo. E sono i poveri a pagare di più – dice al manifesto l’avvocato ecuadoriano Pablo Fajardo -. Per questo, la vittoria delle comunità amazzoniche contro i disastri ambientali compiuti da una grande multinazionale come Chevron è un’iniezione di fiducia e un precedente giuridico importante per altre vertenze di questo tipo». Fajardo è venuto in Italia per partecipare a una conferenza internazionale sulla giustizia ambientale organizzata dall’Associazione A Sud e dal Centro di documentazione sui conflitti ambientali. In quel contesto ha raccontato la lotta titanica di alcune comunità indigene contro la multinazionale Usa Chevron, prima Texaco. Una vicenda che si è conclusa con una vittoria giuridica a favore delle popolazioni colpite. Il 12 novembre, la Corte suprema dell’Ecuador ha infatti confermato la condanna di Chevron per i danni all’ambiente e alla salute delle popolazioni causati dalle attività estrattive.
«Una prima sentenza a favore delle comunità – racconta Fajardo – era stata emessa nel 2011 da un tribunale della provincia amazzonica di Sucumbios, dove la multinazionale ha imperversato dal 1964 al ‘90. Per aver perforato 356 pozzi di petrolio, aver scaricato nei fiumi i rifiuti tossici che accumulava nelle piscine costruite per smaltirli, per aver inquinato suolo e aria, l’allora Texaco, acquisita dalla Chevron nel 2001, è stata condannata a pagare 9,5 miliardi di dollari: una cifra lievitata a 19 miliardi perché Chevron non hachiesto scusa alle popolazioni colpite». Anzi, si è appellata alla Corte nazionale: «E ora purtroppo la Corte – dice ancora Fajardo – pur avendo confermato la sentenza, ha ridotto la multa a 9,5 miliardi di dollari». Intanto – spiega il legale -, la multinazionale ha aperto altri due fronti giuridici a livello internazionale. «Nel ‘93 Chevron ha creduto che le convenisse rivolgersi a un tribunale dell’Ecuador, ma le prove erano così evidenti e la resistenza popolare così agguerrita che alla fine non ha voluto rischiare, e ha preferito trasferire la vertenza a un tribunale di New York: avvalendosi di una legge degli anni ‘60 applicata alla mafia ha cercato di far passare le comunità indigene per un’associazione sovversiva. E un giudice, chiaramente di parte, e al quale hafatto ricorso rinunciando al parere dei giurati popolari, le ha dato ragione nel 2011: pretendendo che la sentenza ecuadoriana non debba applicarsi da nessun’altra parte. Un delirio d’onnipotenza poi ridimensionato da una sentenza d’appello. Ma il processo continua e un mese fa c’è stato un altro pronunciamento a noi sfavorevole». Un’altra via tentata da Chevron è quella dell’arbitraggio internazionale: «In questo caso si tenta di coinvolgere lo stato e il presidente Correa, a cui hanno persino spiato la posta elettronica – dice Fajardo – e il riferimento è a un accordo bilaterale firmato nel ‘97. Ma Texaco se ne va nel ‘92, e poi questi trattati non sono retroattivi. E soprattutto oggi l’Ecuador funziona in modo diverso dal passato, e l’America latina non è più il cortile di casa. Per questo, chi prima era senza-voce oggi può pretendere giustizia e farà scuola grazie alla propria tenacia e alla lotta».
Una lezione che Fajardo ha imparato da giovanissimo, quando la sua famiglia si è trasferita nella zona per trovare lavoro: «A 16 anni – racconta ora – studiavo in una missione di padri cappuccini, abbiamo organizzato un comitato di resistenza tra contadini e indigeni. Vedevo che le autorità locali proteggevano solo gli interessi di Texaco. Nessun avvocato accettava di difenderci. Allora decisi di diventare avvocato. Ho seguito la vertenza da attivista e poi da giovane avvocato. Mi sono battuto con i loro potenti legali. E abbiamo vinto, ha vinto la lotta delle comunità amazzoniche».