Un’intervista a Jacques Vergès del 2007, all’indomani della presentazione a Cannes del film «L’avocat de la terreur», uscita su «Alias» del 29 settembre 2007

II film documentario di Barber Schroeder, “L’avocat de la terreur”, cerca di ricostruire la vita complessa di Jacques Vergès, il famoso avvocato che ha difeso personaggi di tutti i tipi, dai terroristi Magdalena Kopp, Anis Naccache o Carlos, ai criminali storici come Klaus Barbie o Milosevic e, più recentemente, Tareq Aziz, fino a personaggi di cronaca trasformati in simboli, come il giardiniere Omar, accusato di aver ucciso la sua datrice di lavoro o Ivan, il ragazzino che è caduto dal balcone per aver seguito il padre clandestino che scappava alla polizia.
Il film sul filo della vita di Jacques Vergès, presentato alla 60ma edizione del Festival di Cannes (e distribuito in dvd in Italia nel 2009 da Feltrinelli, ndr), cui ha fatto seguito un significativo successo di pubblico in Francia, ripercorre alcune tappe fondamentali della storia contemporanea, a cominciare dalla lotta dell’Fln per l’indipendenza dell’Algeria, punto di partenza della carriera di avvocato di Vergès. Ma il documentario non arriva a svelare tutti i misteri che circondano la vita di Vergès, la sua «sparizione» per otto anni, le sue relazioni con il potere, in Francia e altrove. Nel suo studio parigino, lo stesso dove si è fatto filmare rispondendo alle domande di Schroeder, Vergès si racconta.

Come è nata l’idea del film?
Non da me. La produzione si è interessata alla mia vita professionale e mi ha chiesto se ero d’accordo a venire filmato. In molti mi avevano sconsigliato di accettare, di rispondere alle domande di Barbet Schroeder : “Ti farai prendere in trappola”, mi dicevano. Ma io ho un’altra idea: la gente vedrà che non ho le corna e la coda, che non sono il diavolo con la lingua bifida. Ho detto a Schroeder: “Visto che posso parlare la gente giudicherà dalle mie parole”.

Che giudizio dà del film di Schroeder, che a tratti non è compiacente con il suo personaggio?
Il film evoca mezzo secolo di guerre coloniali, con i suoi corollari opposti, il terrorismo e la tortura. È importante anche perché adesso siamo all’inizio di un altro mezzo secolo dove questa situazione è destinata a continuare. Penso ai palestinesi, all’Iraq, al Pakistan ecc. È vero, il film ha degli aspetti che io critico. Per esempio, alla fine, Schroeder fa sfilare una serie di volti di dittatori africani, delle immagini che secondo me hanno un sapore di paternalismo, di razzismo. In Francia io posso difendere chi voglio, nessuno ha niente da dire, mentre in Africa no, perché si tratterebbe di “dittatori”. Ma io lavoro con lo stato, non con il dittatore, per esempio difendo una società alberghiera gabonese contro una società di costruzioni francese, che ha lavorato male. Schroeder, poi, a volte fa delle domande che Sherlock Holmes non farebbe, perché la risposta è evidente: chiede se ero in Cambogia, ma la risposta è scontata, perché se non c’ero non si vede perché i dirigenti cambogiani di allora dovrebbero rispondere di sì, e se c’ero è la stessa cosa, non rivelerebbero un segreto per non passare per spioni. Schroeder fa la stessa cosa con i servizi segreti e ottiene le stesse risposte evidenti. Poi, mi attribuisce una relazione con Magdalena Kopp, la compagna di Carlos. Certo, io andavo a trovarla ogni giorno in prigione. Era isolata, non parlava francese, il carcere femminile è più duro per le detenute politiche di quanto non lo sia quello maschile, dove i politici godono di un certo prestigio. Del resto, andavo a trovare anche Klaus Barbie quando era mio cliente e non ero certo innamorato di Barbie…

Il film in Italia è stato presentato nell’ambito di un convegno su Fanon. Si può quasi parlare di vite parallele tra lei e Fanon. Lo ha conosciuto?
Abbiamo avuto rapporti circoscritti. L’ho incontrato all’indomani della guerra e poi si è fatto vivo quando difendevo dei militanti dell’Fln. Nei fatti, avevo un’attività molto diversa dalla sua. Ma tutti e due eravamo originari di vecchie colonie francesi, lui la Martinica, io la Réunion. Avevamo la stessa età, entrambi eravamo stati impegnati nella resistenza e poi eravamo con l’Fln.

Lei è spesso messo all’indice con l’accusa di difendere dei terroristi. Nel film, come provocazione, lei risponde: “Difenderei anche Bush”.

Il terrorismo è un’arma, non un’entità, un’arma che è utilizzata da gente molto diversa. L’Fln aveva fatto ricorso al terrorismo, ma lo stesso faceva anche l’Oas (l’organizzazione armata in difesa dell’Algeria francese, ndr). L’Ira e Al Qaeda, ma non si tratta dello stesso terrorismo. Israele fa ricorso al terrorismo, ma le sue azioni non vengono definite tali.

Lei ha teorizzato il processo di «rottura». Può spiegarne i contorni?
L’idea è nata ai tempi della guerra d’Algeria. Gli avvocati della sinistra francese cercavano allora di stabilire un dialogo con i giudici militari. Pensavano che sarebbe stato un approccio efficace. Ma io dicevo: non convincerete mai i giudici militari della giustezza della causa dell’Fln. Alla fine, gli accusati verranno comunque condannati a morte. Ho pensato allora che bisognava approfittare del processo per rivolgersi all’opinione pubblica, per cercare di squalificare il tribunale stesso. Secondo me era questo l’unico modo per evitare la condanna a morte, perché il tribunale avrebbe voluto evitare di ritrovarsi al centro della polemica. Difatti, decine di miei clienti e amici sono stati condannati a morte, ma nessuno è poi stato giustiziato. Dei documenti provano che avevo ragione. Da poco è venuto alla luce che il primo ministro Michel Debré aveva deciso di «decapitare» la difesa dell’Fln, e un avvocato venne veramente ucciso. È la prova che questa strategia aveva colpito il potere. La sinistra aveva invece un punto di vista paternalista, franco-francese. Per me, la guerra d’Algeria non era un conflitto franco-francese, ma un fatto internazionale, una declinazione della più generale lotta tra indipendenza e oppressione. Per me, bisognava giustificare la violenza dell’Fln, non condannare tutte le violenze. Di qui la mia rottura con la sinistra. Comunque, il processo di rottura non è una strategia di difesa sistematica. Ma interviene solo quando il dialogo non è più possibile. Il concetto c’era già nell’Antigone di Sofocle. Tra le legge di Creonte e la legge di dio c’è rottura, si tratta di due valori opposti. E questo implica la mediatizzazione: Antigone si rivolge al coro, il coro, influenzato dal potere, prima esita, ma poi si rivolta, l’opinione pubblica si ribalta.

L’Fln lottava per l’indipendenza dell’Algeria, mentre il nazista Barbie era accusato di crimini contro l’umanità. In che senso poteva essere applicato a questo processo il concetto di «rottura»?
Bisognava prendere il processo in ostaggio. Voi volete fare il processo dei crimini contro l’umanità. Bene, allora facciamolo davvero: prima bisogna giudicare i crimini del colonialismo per avere il diritto di giudicare altro. Al processo, gli avvocati della parte civile erano tutti bianchi, la sola differenza era tra le vittime ebree e quelle che facevano parte dei gruppi della resistenza. Per me, l’umanità era sui banchi della difesa: io, prima da solo, poi con due altri avvocati venuti dai paesi colonizzati. Con questo ho preso il processo in ostaggio. Per me, quando si parla di difesa dei diritti umani, si parla sempre di difesa dei diritti dell’uomo bianco. L’occidente difende il principio che tutti siano eguali, ma noi siamo più eguali degli altri. La difesa dei diritti umani dipende dai rapporti di forza. Vi racconto un aneddoto: durante la guerra, ero su una nave militare inglese che ha fatto scalo in Sudafrica. Il comandante ha detto ai meticci: “attenzione, non scendete dalla nave, qui ci sono leggi che io non condivido, ma contro le quali non posso fare niente. Sarete umiliati”. “E io cosa faccio?” gli ho chiesto. “Tu – mi ha risposto – con la tua faccia orientale, visto che i giapponesi sono forti, non avrai problemi. Puoi scendere”. Cioè, una questione di rapporti di forza.

Oggi, Sarkozy vuole mettere la vittima al centro del processo. Cosa ne pensa?
Il mio è un punto di vista condiviso dalla maggior parte degli avvocati e anche dai magistrati. Robert Badinter ha ben spiegato che il processo non è una terapia. Non bisogna confondere giustizia e terapia. L’ho detto nella mia arringa a Lannemezan il 17 settembre scorso, nel processo contro George Ibrahim Abdallah, che chiede la libertà con la condizionale mentre il dipartimento di stato americano fa pressioni sulla giustizia francese perché gli venga negata, sulla base delle richieste di alcune vittime, la vedova di un uomo morto in un attentato e un ferito. La giustizia non è lì per aiutare la gente a elaborare il lutto, certo la giustizia deve ascoltare le vittime, ma il suo ruolo non è quello di riparare un trauma.