Novantasei dei seicentoventi marmi della Collezione Torlonia saranno finalmente restituiti al pubblico: accadrà il 4 aprile quando la mostra, curata da Salvatore Settis con Carlo Gasparri e allestita da David Chipperfield, sarà visitabile a Palazzo Caffarelli, sul Campidoglio, fino al 10 gennaio 2021 (catalogo Electa). Poi, cominceranno i preparativi per un giro del mondo che dal Louvre porterà le opere fin negli Usa (sperando che tornino tutte indietro, dato l’interesse esplicito del Getty Museum).
Nessun comune cittadino, al tempo dell’Italia repubblicana, ha mai goduto del diritto di ammirare insieme l’Hestia Giustiniani, la sontuosa replica in marmo greco del Diadumeno di Policleto e quella teoria di ritratti imperiali talmente completa da far invidia ai Capitolini e ai Vaticani. Perfino Ranuccio Bianchi Bandinelli, nel 1947, dovette travestirsi da spazzino e attaccare discorso col custode per entrare nel museo di via della Lungara in Trastevere, mai inaugurato nonostante esistesse dal 1875, in cui i reperti erano ospitati. Perché l’accesso, come racconta Antonio Cederna, era un privilegio concesso solo a chi non dava problemi.
Poi fu anche peggio. Negli anni ’70, grazie a una licenza per la riparazione del tetto, le settantasette sale di un monumento della cultura che in pratica era stato aperto solo per tre decadi, e su richiesta, vennero trasformate in novantatré mini-appartamenti. La collezione fu spostata nei magazzini. Palazzo e reperti vennero sequestrati nel 1977. Secondo la Cassazione, quelle opere «stipate in maniera incredibile, addossate l’una all’altra» in tre locali «angusti, insufficienti, pericolosi», e quindi «private del loro naturale respiro», erano «destinate a sicura morte dal punto di vista culturale». Fu quel che accadde, mentre i proprietari cadevano in prescrizione. Con l’evento di Palazzo Caffarelli, si gettano quindi le basi per una definitiva redenzione, in virtù di un accordo firmato nel 2016 tra Fondazione Torlonia e Mibact.
L’archeologo Carlo Gasparri, che insieme a Settis sta lavorando all’esposizione, è un grande esperto della storia della collezione.

Quando ha incontrato queste opere per la prima volta?
Le vidi nel 1977, quando fui chiamato dal tribunale per il riscontro inventariale. Nei magazzini di via della Lungara ebbi tre giorni di tempo soltanto per constatare l’effettiva esistenza delle seicentoventi sculture, prima che tutto fosse sigillato. Avevamo a disposizione nulla più delle informazioni redatte dai Visconti, Pietro Ercole prima e in seguito il nipote Carlo Lodovico che, a partire dal 1876, avevano realizzato una serie di piccoli cataloghi. Ne esistevano anche edizioni in francese e in inglese, segno della consapevolezza di un interesse internazionale. Nel 1884-1885 era stato infine dato alle stampe un imponente volume corredato da tavole realizzate con la tecnica della fototipia dalla ditta Danesi. Lì dentro c’era tutto quello che sapevamo del museo.

Cosa vide, all’epoca, nei magazzini?
Illuminate da luci bassissime, le sculture erano disposte l’una accanto all’altra: già semplicemente osservarle non era facile. Potei tuttavia notare come reperti che il catalogo dichiarava provenienti da scavi nella Villa dei Quintili o a Portus presentassero integrazioni di restauro di stile barocco o settecentesco. Qualcosa non tornava. Successivamente, divenne chiaro che molte delle opere non erano state rinvenute nelle proprietà dei Torlonia, potenti banchieri, ma da loro erano state comprate.
Nel 1800, per esempio, era stato rilevato in un’asta il patrimonio dello scultore Bartolomeo Cavaceppi, il quale aveva restaurato statue dei Capitolini, del Vaticano e soprattutto di Villa Albani, dove aveva lavorato in contatto con Winckelmann, sviluppando una prassi filologica cui avrebbe obbedito mezza Europa. Il grosso dell’acquisizione servì per arredare il palazzo di piazza Venezia, demolito nel 1901, mentre il resto fu sparpagliato tra la villa sulla Nomentana, e le altre di Anzio, Tuscolo, Castel Gandolfo.

Ci furono altri affari di simile portata?
Nel 1816 il principe Giovanni comprò le sculture del marchese Vincenzo Giustiniani. Ebbero inoltre luogo ulteriori operazioni col meccanismo dei prestiti di banca: artisti stranieri squattrinati venivano a Roma e, per avere liquidità, davano in pegno opere che poi non riuscivano a ripagare. Quando il principe morì lasciò la maggior parte del patrimonio a Alessandro, il suo terzogenito. Questi, come il padre aveva ben compreso, era dotato di una straordinaria capacità imprenditoriale. Riprese in mano la conduzione del banco di famiglia, prosciugò il Fucino, ristrutturò le residenze di piazza Venezia e del Nomentano e, nel 1866, comprò Villa Albani.

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Come nacque il museo Torlonia di Trastevere?
A Villa Albani fu necessario risistemare il giardino. Alessandro fece allora prelevare una cinquantina di sculture della collezione settecentesca e decise di trasferirle nell’edificio di via della Lungara, dove aprì settantasette sale numerate, divise da tende nere, con le sculture poggiate su basi uniformi. Non era più un deposito, ma un tempio dove conservare l’enorme quantità di opere accumulate nei decenni, che i Torlonia cominciarono a farvi confluire da tutti i possedimenti.
Nel 1875, il museo conteneva ufficialmente seicentoventi sculture, restaurate e sistemate. I conti non tornano tuttavia né con l’inventario Giustiniani né con i marmi di Cavaceppi. Qualcosa deve essere andata dispersa. E, infatti, qualcosa di tanto in tanto si ritrova. Per esempio, presso un antiquario di Torino, è stato individuato un busto originariamente collocato nel palazzo di piazza Venezia, donato a un certo punto a Umberto di Savoia.

Si può prevedere l’apertura di una sede museale stabile, davvero fruibile per tutti?
Il 4 aprile, se non altro, si farà un primo passo. La Fondazione, d’accordo con il Ministero, vuole arrivare a un’esposizione completa dei marmi, ma prima bisognerebbe individuare un contenitore idoneo. Palazzo Caffarelli, ristrutturato negli anni ’70 dell’Ottocento e compatibile stilisticamente con il periodo in cui si è formato l’originario spazio di via della Lungara, non sopporterebbe i pesi di tutti i marmi e, oltretutto, è attualmente occupato da uffici del Comune. Le due parti in causa vogliono aprire un nuovo museo. Non è facile e ci vorrà tempo.

L’atteggiamento dei Torlonia è mutato negli ultimi anni?
Il principe Alessandro, scomparso nel 2017, ha mantenuto un legame fortissimo con la sua collezione. Era attento nel conservare le opere, ma geloso e per nulla interessato alla loro divulgazione. Come mi spiegò una volta, sentiva che i marmi gli erano giunti, scavalcato il padre, come un lascito diretto del nonno. Si trattava per lui, in fin dei conti, di una questione personale.
La famiglia si colloca invece ora in un’ottica moderna, concentrata su una valorizzazione culturale e scientifica, ma anche economica: il mantenimento della collezione è un onere. Quando i novantasei reperti andranno in tournée lasceranno spazio nei laboratori di restauro per gli altri. Si arriverà così a un vero catalogo. Nessuno ha mai studiato tutte le opere: al momento è scomodo perfino guardarle.

Con questi presupposti, in che modo avete proceduto per allestire la mostra?
Avevamo composto a tavolino un itinerario su quella che credevamo fosse la storia delle opere. Quando queste sono state però pulite e indagate, spesso abbiamo cambiato idea: si è scoperta per alcune una provenienza diversa da quella immaginata, altre abbiamo dovuto accantonarle, a tante è stata cambiata posizione all’interno della logica dell’esposizione. E quanto prima servirà un mecenate se non l’intervento diretto dello Stato attraverso l’Istituto centrale del restauro, anche se il bene è privato.

Quale chiave di lettura consiglia al pubblico di Palazzo Caffarelli?
I capolavori sono di notevole effetto, ma a noi piacerebbe ci si soffermasse sulle complesse vicende di sculture antiche che hanno avuto almeno cinque vite successive: sono state rinvenute in momenti e luoghi non certi, sono entrate a far parte di una prima collezione, sono state restaurate con interventi che, a volte, conosciamo grazie a stampe e disegni, sono passate ai Torlonia e, infine, sono approdate a un museo incompiuto. Qui, soprattutto alle sculture provenienti da collezioni seicentesche, sono state tolte le integrazioni dell’epoca per sostituirle con restauri di gusto classicistico. Questi hanno conferito alle opere una patina omogenea, seppur piuttosto pesante. L’artigianato romano di tradizione neoclassica, in contrasto con le tendenze artistiche più avanzate d’Europa, era appassionatamente sostenuto dai Torlonia. Quel loro passatismo, così controcorrente, commuove.