Sotto la voce «Mie ultime volontà», Luigi Pirandello, spirato a Roma il 10 dicembre 1936, aveva lasciato scritto su un foglietto un breve, bellissimo testo, composto probabilmente diversi anni prima di morire: «Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui».

QUANTO SEGUÌ è passato alla storia come «la stravagante vicenda delle ceneri di Pirandello»: da questa e altre voci del multiforme, inesauribile alfabeto pirandelliano, attinge il nuovo film di Paolo Taviani, Leonora addio, unico titolo italiano inserito nel concorso principale a Berlino, presentato in anteprima al Berlinale Palast, e in uscita nelle sale italiane domani con 01 Distribution. È il primo film firmato dal regista senza suo fratello, Vittorio, morto nel 2018. Dopo I sovversivi (1967), La masseria delle allodole (2007) e Cesare deve morire (2012), premiato a sorpresa con l’Orso d’oro al miglior film, è la quarta volta che Taviani presenta un suo film a Berlino.
Con Pirandello il dialogo dei due registi il rapporto è antico: del drammaturgo siciliano i Taviani hanno adattato alcune delle Novelle per un anno (in Kaos, 1984, ultimo film di un’altra coppia, stavolta di attori: Franco e Ciccio, e nel 1998 con Tu ridi). Il titolo di Kaos i registi lo avevano preso da una celebre affermazione di Pirandello, che si definiva «figlio del Caos» perché nato appunto presso il bosco agrigentino omonimo, l’antico Càvusu. In quel film adattavano quattro novelle e ne fondevano altre due in un unica storia, per un’opera composta da quattro episodi più un «epilogo» nel quale Pirandello in persona – interpretato dal grande Omero Antonutti – conversa con la defunta madre.
Leonora addio si direbbe a sua volta costituito da diverse componenti pirandelliane, a cominciare dal titolo, che ricalca quello di una novella del 1910, della quale lo sviluppo narrativo tuttavia non reca traccia; il film è invece diviso in due blocchi: nel primo si ricostruisce la storia delle ceneri e dei funerali di Pirandello; nel secondo invece si adatta l’ultimo racconto scritto dall’autore tre settimane prima di morire, Il chiodo.

La «stravagante vicenda» è stata raccontata in diverse versioni, non sempre conciliabili. Oltre a quella contenuta in Le ceneri di Pirandello, libro di Roberto Alajmo illustrato da Mimmo Paladino, la più divertente è quella tramandata da Andrea Camilleri. Nel 1936 la cremazione era malvista dalla chiesa e per Pirandello il regime avrebbe voluto funerali solenni che la famiglia impedì. Con queste premesse, tuttavia, i primi punti delle volontà testamentarie furono rispettate: nessuna cerimonia, il corpo fu bruciato e le ceneri, contenute in un’anfora antica appartenuta alla famiglia, furono deposte presso il cinerario comune del Verano. Soltanto nel 1948 il professore Gaspare Ambrosini, di Favara, appena eletto parlamentare, si attivò su sollecito di un gruppo di studenti, tra i quali Camilleri, per riportare le ceneri in Sicilia. Dopo aver ritirato personalmente l’anfora dal cimitero e averla fatta rinchiudere in una scatola, il professore la portò con sé in treno, verso Agrigento. Sembra che sul vagone alcuni uomini abbiano usato la scatola come tavolino per giocare a carte: «tressette col morto», secondo Camilleri.

ARRIVATI ad Agrigento, il vescovo si oppose alla cerimonia prevista. Il comitato funebre prese in prestito allora una bara, sembra su suggerimento di Camilleri stesso, così da «sopperire» allo scandalo dell’urna cineraria e convincere le gerarchie ecclesiastiche. Si svolse un funerale «provvisorio», già il secondo, con il vaso dentro la bara; nel 1961 fu pronto il monumento funebre scolpito da Renato Marino Mazzacurati con la pietra del Caos, e se ne celebrò un terzo. Anni dopo si scoprì che non tutte le ceneri di Pirandello erano state inserite nel monumento. Con il nuovo mucchietto, rimasto accidentalmente nell’anfora anni prima, si produsse una quantità tale di ceneri che non fu più possibile ripristinare il monumento. Le ceneri furono disperse allora come immaginato dallo stesso Pirandello, comicamente però, in una giornata, si dice, molto ventosa. Infine, una volgare analisi del Dna: condotta nel 1994, dimostrò che nell’anfora erano ospitate ceneri di Pirandello, sì, ma anche di altri. Uno, nessuno e centomila.

C’È UN FILO SOTTILE che lega questo passaggio postumo della biografia di Pirandello alla novella Il chiodo. Ed è un filo, appunto, testamentario. Ispirato all’autore da un fatto di cronaca nera avvenuto a New York, il brevissimo racconto dà voce alla coscienza di un anonimo ragazzo che ha commesso un omicidio insensato e terribile. Utilizzando «un grosso chiodo arrugginito, caduto forse da un carro passato prima per la strada», il ragazzo uccide una bambina che incrocia per strada, colpito dal suo «abitino color pervinca» e dai suoi «capellucci rossi». L’atto incomprensibile genera in lui una riflessione intima, che schiude le porte alla dimensione testamentaria della novella. Pur non essendo un racconto «tragico» in senso stretto, Il chiodo mette a fuoco il sentimento tragico dei suoi personaggi, tanto del ragazzo omicida quanto di Betty, la bambina con i capelli rossi: e quel chiodo, che fin dal titolo spicca al centro della storia, evoca, in una riduzione al minimo materico, lo strumento del mestiere, la scintilla primigenia: quella di cui l’artefice si è servito per intraprendere la sua strada, seppur insensatamente e impunemente. Sia egli l’assassino, oppure l’artista.