Seduta sui sedili posteriori di una macchina, una bambina si lascia cullare dal suono delle parole dei genitori abbandonandosi al sonno. E sogna. Luoghi magici, boschi, laghi, città deserte, una natura incontaminata che fa da sfondo all’erranza di due bizzarre creature: un monaco meccanico e uno strano omino rosso, uniti dal proposito di salvare un vecchio orso di peluche che solo la luna ha il potere di «guarire».

 

 

È quasi  tutta racchiusa qui, in queste poche righe, la trama de I racconti dell’orso, piccolo miracolo produttivo che da lunedì 12 marzo, facendo tappa al Nuovo Sacher di Roma, raggiunge le sale cinematografiche (grazie alla distribuzione del Milano Film Network) dopo aver girato i festival italiani e di mezzo mondo, da Rotterdam al Messico (aggiornamenti www.iraccontidellorso.it).

 

 

Eppure la semplicità di questa favola post-apocalittica ambientata nella penisola scandinava, non esaurisce la magia, il fascino e il mistero naiv dell’originale esordio di Samuele Sestieri e Olmo Amato, giovani filmmaker romani dal percorso artistico e formativo eterogeneo (uno ha studiato cinema e frequenta la critica scrivendo per la web-rivista «Point Blank», l’altro è laureato in neurobiologia ma è un fotografo di sensibilità sopraffina). Tutto, ne I racconti dell’orso, è relato di un sogno. Fin dalla sua genesi. Un sogno al limite dell’utopia. Sembrava, infatti, una sfida impossibile quella di realizzare un film da soli, senza troupe, muniti solo di una piccola camera digitale e occupandosi in prima persona di tutte le mansioni dietro e davanti la macchina durante un viaggio di quaranta giorni tra Finlandia e Norvegia.

 

 

La sceneggiatura è poco più di un canovaccio, che si trasforma man mano, lasciando spazio ai luoghi e alle persone incontrate on-the-road. Poi, una fortunata campagna di crowdfunding ha aperto alla possibilità di un percorso di post-produzione durato due anni. Ed ecco il film, un «caso» più unico che raro nel panorama del cinema indipendente italiano, tenuto a battesimo dal Torino Film Festival – era in concorso durante la 33.esima edizione (2015).

 

 

Tra i pregi, I racconti dell’orso ha quello di inseguire ciò che molto cinema italiano ha ormai smarrito da tempo: la profondità di campo, la potenza dell’immagine, l’esperienza della contemplazione. Diviso in capitoli, il film è un viaggio nel regno di Morfeo, indaga le pieghe di un inconscio infantile cavalcandone lo stupore, la meraviglia, l’ingenuità. Perfino il bisogno di rassicuranti certezze (quasi si resta delusi, all’inevitabile risveglio, non tanto nel tornare alla realtà, quanto al dover abbandonare la dimensione «libera e anarchica» della Natura per trovare al conforto nel focolare domestico).

 

 

Olmo e Sestieri ci portano al confine tra sogno e realtà. Il diaframma esperto dell’uno, l’occhio cinephile dell’altro, tradiscono molto amore per il cinema. E suggestioni inconsce che attingono ora all’universo fantastico di Miyazaki e di Norštejn, ora all’animismo di Apichatpong Weerasethakul, ma neppure sono esenti da rimandi alla fantascienza della New Hollywood.
La povertà di mezzi diventa risorsa e si offre come occasione per inventare: scenari, atmosfere, personaggi, persino un nuovo linguaggio dove la parola è bandita, sostituita da suoni gutturali e bip elettronici. Segni sonori elementari che corrispondono alla basica linearità dei personaggi, maschere, tratti.

 

 

I racconti dell’orso è una piccola fiaba non priva di fragilità, ma ha coraggio. Non teme di abbandonare il racconto tradizionale per attraversare funambolicamente, e senza rete di protezione, terreni sconosciuti, a metà tra l’animazione e una inedita forma di quasi-avanguardia. Contiene in sé qualcosa di arcaico e ancestrale, qualcosa di moderno, di surreale e di fantastico. Un oggetto del tutto alieno nel panorama cinematografico nazionale, dolce e poetico, che merita disponibilità e attenzione.