Nel 1964 si tenne a New York un’importante rassegna artistica internazionale, la Guggenheim International Award. A rappresentare l’Italia, c’erano quattro artisti: Lucio Fontana, Giuseppe Capogrossi, Enrico Castellani e Luigi Boille, allora giovane pittore di origine friulana.
Era nato a Pordenone nel 1926, ma ben presto si era trasferito a Roma, e già dal 1950 risiedeva Parigi, dove aveva trovato il successo, grazie a una maturità creativa sfociata in una delle più interessanti e originali manifestazioni dell’Informale. Forse perché, come scrive il critico francese Pierre Restany nel 1959, «a differenza di coloro che traggono soddisfazione da certezze momentanee, egli non è mai rassicurato dalla sua pittura (…). Cerca attraverso ciascuna tela i possibili passaggi, gli sbocchi verso nuove situazioni». Una definizione che si attaglia a tutto il percorso artistico di Boille: una ricerca instancabile, mossa da inesauribile curiosità e suggestione. A tutt’oggi la sua fama è assai più consolidata in Europa e nel mondo che in Italia, nonostante l’eccezionale qualità del suo lavoro e la sua inconfondibile cifra stilistica lo pongano al livello dei maggiori maestri italiani del secondo Novecento.

“Spazio spirituale”, 1966

Tracce d’esistenza
Ora che Luigi Boille ci ha lasciati, all’età di 89 anni (il 20 aprile scorso), a chiunque ami veramente la pittura verrà spontaneo riflettere sul lavoro di questo lucidissimo sognatore, che abitava la dimora della pittura senza curarsi dei clamori esterni. Pittura come luogo di autenticità dello sguardo, dello sguardo di tutti noi, purtroppo sempre più distratto, spesso spento, o addirittura accecato, da falsi miti dell’immagine. Pittura capace di originare tensioni ed emozioni. «Un signore è entrato in galleria e mi ha detto: ‘questa è una mostra che mi dà una grandissima emozione’. Mi ha reso molto felice», raccontò Boille con la sua squisita semplicità, in occasione di una sua mostra romana, qualche anno fa.

Boille non amava scrivere o parlare molto del suo lavoro: i discorsi programmatici non gli sono mai serviti, perché il colloquio tra la sua opera e lo spettatore si costruisce volta per volta, come possibilità del «lettore» di entrare nel dinamismo segreto di questa «scrittura» visiva dalla straordinaria ricchezza segnico-cromatica: «È una scrittura la mia, in realtà, una scrittura che mi definisce, che mi esprime, che dà elementi di appoggio alla mia vita: tracce della mia forma psichica, del mio essere individuo…», diceva. E ancora: «La matrice del mio lavoro è il segno, segno che può moltiplicarsi all’infinito, oppure essere isolato, fluttuare nello spazio… All’inizio della mia ricerca, la materia nasceva da se stessa, e il segno era dentro la materia, era invisibile, non ancora protagonista».

Questo segno «imprigionato» nella materia colpì immediatamente anche Michel Tapié, leggendario teorico dell’Informale come Art autre, che inserì Boille nel gruppo dei suoi artisti prediletti, e paragonò il suo lavoro a quello di grandi espressionisti astratti americani quali Mark Tobey e Clifford Still. Tapié riconobbe nella pittura «informale» di Boille la potenza creativa di quell’«art autre» di cui aveva parlato nel celebre libro omonimo del 1952. Una pittura ricca di «elementi barocchi», anche se nel suo lavoro il dinamismo e il fervore immaginativo saranno sempre controbilanciati da un senso «classico» di equilibrio formale.
Altri grandi critici, fra i più influenti della storia dell’arte del Novecento, hanno nel tempo sostenuto e amato Luigi Boille: Lionello Venturi, Guido Ballo, Cesare Vivaldi, Filiberto Menna, Giulio Carlo Argan che, per il lavoro di Boille coniò nel ’73 la definizione di «pittura più pura possibile».

Da quelle che Restany definisce le hautes pâtes informali di Boille (anni ’50), il pittore si è mosso verso la rarefazione, il libero fluttuare del segno nel colore, o nel bianco, o nel nero, senza tuttavia perdere mai la sua ricchezza espressiva.
Nel corso degli anni ’60, al progressivo orientarsi della materia-colore secondo linee di forza che accennano a primordiali geometrie, si affianca la concezione di uno spazio fluido, avvolgente e «barocco», una sorta di campo magnetico infinito, dove infiniti segni e onde di colore si accavallano senza posa, come nelle splendide opere esposte alla Biennale di Venezia del ’66, con presentazione del poeta-critico Cesare Vivaldi e del poeta Murilo Mendes.

Boille-
“Contraste sonore”, 1959

Negli anni ’70, Boille continua a saturare lo spazio in una sorta di horror vacui, ma lo affolla di segni minuscoli e di grafie a-semantiche, raffinate e leggere, che rinviano sempre di più a quelle orientali.«Una delle intuizioni dell’arte contemporanea occidentale – afferma l’artista – è stata quella di mettere in connessione Oriente e Occidente… Già Malraux aveva capito l’importanza di questa relazione. In questo senso la calligrafia, che è l’espressione tipica dell’arte estremo-orientale, la scrittura come immagine, come forma espressiva, ha influenzato molto l’espressionismo astratto americano, ma anche l’informale europeo, e il mio lavoro».

Fluttuazioni zen
Ma eccolo, negli anni 80, iniziare un percorso verso la rarefazione, la fluttuazione del segno nel vuoto dello spazio-colore: una misteriosa e intensissima forza centripeta attrae il colore, la materia e la luce verso il centro del quadro, quasi «un punto nel quale si raduna la totalità del visibile e dell’invisibile» (J. L. Borges).
Poi ricomincia a prevalere, all’inizio degli anni ’90, l’impulso centrifugo: Boille torna a disseminare i segni e a farli «respirare», fluttuare nel vuoto di uno spazio sempre più libero, e che più di ogni altro riesce ad evocarci l’infinito… «M’interessava la sublimazione dell’idea del segno nella pittura : il punto di arrivo di diversi anni di ricerca, in cui ho perseguito la purezza della pittura. Sono segni che rincorro da tanti anni… Quello che mi interessa è il rapporto tra lo spazio che chiamiamo ‘neutro’ e i segni».

L’essenza grafica del segno nell’infinito è la protagonista assoluta delle opere recenti di Boille, come il Dittico-Zen presentato al Padiglione Italia della Biennale di Venezia del 2011, testimone di un’interiorità di luce che si oppone alla spazialità del mondo esterno, eppure ne fa parte, se riusciamo a percepirne intensamente la fiamma, il silenzio vibrante, l’incanto. Tutto ciò ci riporta ancora ai poeti amati da Boille: in due versi di René Char – come ci ricorda Tullio De Mauro nel bel testo per il catalogo della Biennale 2011 – Boille ha riconosciuto il senso di tutta la sua pittura: «Si nous habitons un éclair, / il est le coeur de l’éternel».

L’arte di Boille continuerà ad emozionarci perché non insegue il senso della realtà, ma rincorre l’avventura del vuoto del linguaggio, o del linguaggio come linguaggio del vuoto. Un vuoto che non è certo il nulla del pensiero occidentale, ma si avvicina allo spazio zen del pensiero estremo-orientale, che ha in sé il suo significato primo ed ultimo. Boille sa ascoltare come pochi altri il respiro del vuoto, che precede ogni atto di possesso o di controllo dello spazio.

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Senza titolo, 2007

Per questo si vorrebbe immaginare dedicato a lui l’Omaggio a un pittore scritto da un poeta giapponese, che è anche e soprattutto un grande scultore, nato nel 1926 come Luigi Boille, Kengiro Azuma: «Il silenzio nel silenzio / Il bianco nel bianco / La purezza nella purezza / La ricerca del limite / La ricerca dell’assoluto / Il valore dello spirito / La semplicità / L’essenzialità / Il canto del silenzio / Più orientale di un orientale».