Esiste l’amore in tutta la sterminata estensione del termine, l’amore senza confini, l’amore per l’umanità, il mondo, la musica, il mare o la montagna, la poesia o la filosofia, che è essa stessa amore della sapienza. Non è così? Quest’ultima, a sua volta, consisterebbe soltanto nell’amare ciò che non si può giudicare, né conoscere o rifiutare: tutto l’altro in quanto altro, tutto l’esterno in quanto esterno, e la morte e l’amore stesso, impeto furibondo che ci fa morire nell’altro o fa morire l’altro in noi.
Esiste questo amore sconfinato, inesorabile, insopportabile, insensato, impossibile, ed esiste quello che si fa e per il quale non possediamo altro termine se non, appunto, «fare l’amore» (oppure «andare a letto», espressione che però non solo manca di eleganza, ma si trascina dietro una sfilza di parole volgari, triviali, oscene, sporche, disonorevoli, impronunciabili, oppure riservate per essere pronunciate, gridate o mormorate durante l’amore stesso, quando lo si fa). L’ultimo tipo di amore viene definito preferibilmente «eros», mentre per il primo il lessico oscilla tra «philia», «agapè» e «caritas».

In prossimità di soddisfazione
Questi due amori hanno in comune lo slancio, l’infervoramento, la precipitazione senza riserve e senza prospettive: non viene fissato lo scopo, l’esito non viene descritto, si tratta di arrivarci sapendo che l’importante non è giungere alla meta. Forse aspiriamo a tracciare i confini di una finalità possibile: se da un lato ciascun altro è il mio prossimo, la sua prossimità sembra giustificare e persino invocare la mia predilezione, la scelta che faccio di lui e il valore insigne che gli attribuisco; dall’altro, si suppone che il furore del desiderio raggiunga un grado di soddisfazione tale da potersi placare. Eppure sappiamo perfettamente che non ci è data alcuna prossimità senza che questa ci venga immediatamente sottratta più in là, in un’estraneità infinita. E sappiamo anche che non esiste «soddisfazione» – niente «satis», niente «abbastanza» per colui che desidera non tanto appagarsi quanto desiderare ancora e sempre, di nuovo.
All’orizzonte sia di un amore che dell’altro compare la riproduzione, sotto forma di conservazione del gruppo attraverso la pace comunitaria, oppure sotto forma di conservazione della specie (e/o del gruppo…) attraverso la generazione di nuovi individui. In entrambi i casi, tuttavia, ci si pone al di là dell’opera: tanto il gruppo quanto il nuovo individuo devono rinnovare il desiderio per conto proprio, invece di esserne il prodotto.

Forse il sesso propone una cifra – se non la cifra – di tale rinnovamento del desiderio, che in fondo non è altro che il desiderio stesso.
L’eccitazione sessuale, con tutta la sua forza animale e il suo singolare dominio sull’animale umano, rappresenta una turbolenza ontologica del rapporto: alla pari del linguaggio, lo porta molto lontano, cioè dove non si può parlare di satis-fazione, dove non se ne può mai fare abbastanza, ma dove c’è incessantemente qualcosa da fare, qualcosa che non avviene mai come tale, né come risultato, che perciò non è mai «fatta», ma che pure non smette mai di volersi fare.

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Un atto performativo
Cosa facciamo quando facciamo l’amore? (domanda sussidiaria: in quante lingue si dice, più o meno letteralmente, fare l’amore?) Noi non facciamo niente nel senso di produrre qualcosa ; se si fa un figlio, che lo si consideri o meno una produzione (riporto l’espressione di Françoise Dolto: «I genitori credono di fare dei figli, ma si accorgono presto che i figli non lasciano fare!»), non si tratta dell’amore in quanto tale, che potrebbe benissimo essere del tutto assente. Noi facciamo nel senso che compiamo un atto, anche se quello designato non è un vero e proprio atto, è un sentimento, una disposizione, l’eccitazione del rapporto al di là di se stesso, verso ciò che sembra destinato a rinnovarlo all’infinito, oppure a oltrepassarlo in un amplesso con cui concluderlo, senza però sapere in che senso vada preso quest’ultimo verbo.
Se non altro l’espressione indica un’effettività dell’amore che nessuna dichiarazione, nessuna dimostrazione, nessuna testimonianza potrà mai pretendere di raggiungere. Ecco perché, in un certo senso, non è impossibile fare l’amore in maniera diversa dal rapporto sessuale in senso stretto: lo scambio di sguardi, di questo o quel contatto, persino delle parole può avventurarsi sul terreno di questo «fare». Almeno una cosa, infatti, è certa: l’amore non può essere soltanto detto, il suo dire stesso dev’essere un fare. «Ti amo» è un atto performativo: fa ciò che dice. L’amplesso si limiterà ad aggiungere un dire in eccesso, che «performa» il proprio limite.

Perché bisognerebbe parlarne? Semplicemente perché non c’è casualità nel gesto compiuto da Freud quando ha voluto fare piena luce teorica sul sesso, gesto cui tendevano già da qualche tempo alcuni approcci antropologici del XIX secolo. Non c’è casualità perché non sorprende che venga investito di nuovi significati ciò che era stato così accuratamente e costantemente sottoposto a un controllo morale e religioso, vale a dire ciò che poteva soltanto restare dissimulato per essere meglio sublimato nell’assunzione dell’amore divino.

La dissimulazione del sesso non faceva che portare avanti, con una modalità nuova proveniente dal contesto cristiano, la sua antichissima valenza sacra. Forse non esiste cultura in cui il sesso non sia, o non sia stato, oggetto di prescrizioni particolari, che si tratti dei culti rivolti agli organi genitali, dei sistemi di parentela e legittimità delle unioni, dei tabù o delle clausole d’impurità, delle condanne di alcune forme di sessualità, delle prostituzioni sacre oppure delle pratiche sessuali legate a certi esercizi spirituali – per limitarci ad alcune voci di un elenco che potrebbe essere molto più lungo e preciso.

Se è vero che il cristianesimo, tra tutte le culture, forse ha rappresentato la forma più propensa alla diffidenza e all’astinenza sessuali, evidentemente esiste un nesso con il motivo dell’amore così come è stato determinato dal cristianesimo. L’amore cristiano non si distingue soltanto, come si dice spesso e a ragione, dall’eros in quanto desiderio di possesso. Del resto, in buona parte della teologia e della spiritualità cattoliche, l’agapè – distinta in quanto affetto, diletto, cura (che diventa caritas) dell’altro – è stata spesso accostata per molti aspetti all’eros. Carità e concupiscenza si oppongono, ma l’una non può essere completamente estranea all’altra, perché in un certo senso si deve pure amare ciò che si desidera, oppure desiderare ciò che si ama. In realtà, carità e concupiscenza si attraggono a vicenda tanto quanto sembrano respingersi.

Il ritorno infinito
Se l’unico amore che vale (se non addirittura che esiste) è quello di Dio nel senso di un genitivo soggettivo, cioè l’amore che viene da Dio e anche l’amore che costituisce l’essere Dio, allora questo amore rivolto all’intero creato, amore egli stesso creatore, relega nell’insignificanza qualsiasi amore non divino e al contempo chiama qualsiasi creatura a entrare in quell’amore, a diventare amore. Così due tendenze profonde hanno governato e diviso il cristianesimo, riunendosi e dividendosi al suo interno: un’espansione infinita dell’eros e un’assunzione di qualsiasi desiderio e piacere sotto l’egida di una cura originaria.
Nell’ottica dell’infinito, l’esigenza eccede in maniera assoluta ogni possibilità di realizzazione, oppure non viene realizzata se non come l’atto divino da cui procede. Dio crea per amore e questo amore vuole tornare a sé all’infinito. L’amore diventa il nome di un ritorno infinito – all’origine, a sé, all’altro assoluto. Nell’ottica della totalità, il tutto va inteso non più come un ordine (un cosmos con il suo arché e il suo logos), bensì come una scelta gelosa che ordina (nuovo senso di èn archè hèn o logos). L’amore ordina che lo si preferisca, come esso stesso ci ha preferito (al nulla). Esiste un debito assoluto.
Esiste un debito, il dovere di restituire l’amore ricevuto e, al tempo stesso, questo amore ricevuto costituisce una specie di credito illimitato: l’amore rivendica se stesso ovunque, in tutti. Vi è dunque una specie di totalitarismo, un’economia totalitaria dell’amore, dietro la quale peraltro non è certo indifferente veder profilarsi un’economia del profitto.
È a partire da questo che è possibile comprendere come il sesso si manifesti al mondo moderno con un vigore, una virulenza e persino una violenza mai conosciute altrove. Esso è carico di tutta l’energia che nessun impeto divino può più assumersi e che quindi non raccolgono nemmeno più le macchine adibite alla produzione.

La vita in più
Saremmo tentati di dire che il figlio è una produzione (poiesis), mentre l’amore è un comportamento (praxis). Tale distinzione, però, risulterebbe troppo semplicistica, perché un figlio è un’altra esistenza più che un prodotto e il comportamento sessuale è ben lungi dal limitarsi agli atti che portano questo nome. È molto difficile decidere dove cominci e dove finisca il sesso attraverso tutti i nostri rapporti, attività e atteggiamenti. Esso attraversa tutta la nostra vita. Ciò che ha portato alla luce Freud, con il nome di «pulsione (Trieb) erotica», non è l’imprevista importanza, più o meno meccanica, di un registro inferiore della nostra animalità umana: è piuttosto la figura al tempo stesso nuova e antichissima di ciò che ha aperto l’essere vivente a un sovrappiù di vita e l’essere vivente parlante a un’esclamazione ai confini del senso.
Per il momento accontentiamoci di dire che il sesso apre l’esistente a un abisso e a una violenza che se non esauriscono certo i tratti digressivi e scoperti dell’esistenza, quanto meno possiedono una caratteristica: ci conducono – in un groviglio di abisso e violenza – sul bordo di un «fare» che fondamentalmente si limita a sfiorare al tempo stesso il doppio al di là dell’animale e del divino, due nomi che non dicono altro se non che l’esistenza è la sua stessa «deiscenza», una sexistenza.

(Traduzione italiana di Ida Porfido)

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SCHEDA

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Si concluderà in grande la quinta edizione del Festival delle donne e dei saperi di genere, con le due lezioni di Jean-Luc Nancy del 5 e 6 maggio che andranno a coronare il percorso fitto di appuntamenti, tra filosofia, cinema, teatro e incontri, che ha preso avvio a Bari fin dalla metà di aprile. Dedicata interamente al segno delle transizioni, quindi partendo dalla riflessione intorno alla soggettività nomadica, la cifra complessa del presente riesce a dipanarsi. Ne è convinta Francesca Recchia Luciani, organizzatrice e direttrice del festival e docente di Storia delle filosofie contemporanee a Bari; appartiene infatti al presente l’interrogazione sul corpo «e l’identità sessuale, i corpi migranti nella loro relazione con i luoghi, riguarda tutti i cambiamenti innestati nell’esistenza individuale dall’appartenere a un mondo relazionale e sociale in perenne metamorfosi». Se nelle prime due edizioni il baricentro atteneva ai saperi e le pratiche delle donne, da tre anni a questa parte il festival ha cambiato non solo nome ma anche fisionomia. Una torsione che è apertura femminista al tema delle differenze. Il rilievo scientifico ma anche politico non può dunque sfuggire quando si nominano le protagoniste delle precedenti edizioni, da Ipazia a Carla Lonzi, passando per Audre Lorde. Centralità di vite e portati politico-filosofici che assumono quest’anno l’idea di un punto di partenza per raccontare cosa esprima la «transizione» quando a essere interpellati sono corpi sessuati e in relazione. Con una precisa intenzione di coinvolgimento del territorio, emerge allora una sinergia di forze e di pratiche capaci di attrarre non solo un pubblico di studenti ma più vasto che possa restituire narrazioni all’altezza di uno spaesamento che si fa sempre più pressante.
Il festival, promosso dal Centro interdipartimentale di studi sulla cultura di genere dell’università degli studi di Bari «Aldo Moro» e sostenuto dalla Regione Puglia, dall’università di Bari, da Apulia film commission e Teatro pubblico pugliese [mentre le lezioni di Nancy sono state sostenute da Fondazione Puglia e Alliance Française di Bari], viene largamente condiviso anche dal tessuto associazionistico e da molte e molti che con passione ci lavorano intorno, nonostante la variabilità dei fondi a disposizione ma con il saldo auspicio di un sempre maggiore impegno. Questo perché la formula adottata in direzione di una trasversalità dei linguaggi può rappresentare un antidoto alle chiusure disciplinari e al contempo un metodo efficace di ricognizione esperienziale.
Il sito che riguarda l’iniziativa è www.festivaldonnesaperidigenere.it. Mentre nel sito della rivista di pratiche filosofiche e scienze umane «Postfilosofie» (http://www.postfilosofie.it), si possono leggere gratuitamente i materiali dei festival precedenti, come quelli relativi agli Atti di questa edizione di prossima pubblicazione. (alessandra pigliaru)