Viene spontaneo chiedersi, dopo avere visto l’ennesima allocuzione del premier in un contenitore televisivo domenicale, se la medesima cosa possa accadere nella vicina Francia, in Germania o in Gran Bretagna. Se in questi paesi un capo di governo che vuol parlare ai cittadini possa chiedere con una tale facilità, e riceverla, ospitalità ai conduttori dei programmi d’intrattenimento della domenica pomeriggio, sulle reti pubbliche o private.

Ebbene da noi è successo quest’anno già parecchie volte. Renzi solo negli ultimi due mesi è andato in televisione il 6 marzo, il 3 aprile, il 17 aprile e il primo maggio, sempre di domenica: con la D’Urso su Canale 5, con Annunziata a In mezz’ora, con un telecomizio su Rai1 la sera del referendum, a L’Arena di Giletti.

Ancora viene spontaneo chiedersi cosa sarebbe accaduto se la stessa performance l’avesse fatta Berlusconi, presentandosi con tale frequenza, alla domenica, sul piccolo schermo. Non penso di allontanarmi dalla realtà se dico che il termometro del dibattito pubblico sarebbe salito di molto: titoli preoccupati sulla stampa, interpellanze parlamentari, dichiarazioni del presidente della commissione di vigilanza e dei suoi componenti.

Del resto anche quando D’Alema, all’epoca premier, si presentò da Morandi a C’era un ragazzo, la sera di sabato 18 febbraio 1999, Storace convocò d’urgenza la commissione di vigilanza mentre sui giornali si susseguivano le prese di posizione.
De Gaulle all’inizio degli anni sessanta utilizzò molto la tv per parlare ai francesi. Lo fece con una serie impressionante di allocuzioni, conversazioni televisive senza contraddittorio, e conferenze stampa. Durante il 1962, l’anno in cui De Gaulle chiamò i francesi a votare con referendum per una nuova Repubblica presidenziale, ne tenne dodici. Ma nelle settimane che precedettero il voto (si votava ad ottobre) il generale ne intensificò la frequenza andando in video con quattro allocuzioni, scatenando una formidabile reazione dell’opinione pubblica ma soprattutto del direttore de L’Express Servan-Schreiber, che accusò il primo ministro di compiere il «primo colpo di stato elettronico» della storia. Il vocabolo «telecrazia» nasce da qui.
Con i debiti distinguo, la curiosa coincidenza storica ci serve, però, per sottolineare come con l’approssimarsi del referendum costituzionale di autunno sia facile ipotizzare una più forte presenza del premier nei formati nazionalpopolari di intrattenimento. Magari prima che scatti la par condicio.

Chi ha cuore la democrazia non può fare finta di nulla. Come si arriverà al referendum di ottobre, con quali garanzie di contraddittorio e di pluralismo tra le parti? Tema già sollevato su queste pagine, lo ha fatto Vincenzo Vita, ma che merita di essere sottolineato ancora, anche in considerazione dell’inedito spazio di parola occupato dal presidente nei tiggì.
Conosco la possibile risposta a queste considerazioni: la presenza più che assidua di politici delle opposizioni (Salvini, Meloni, M5S) e di giornalisti non in linea con il governo (Travaglio, Sallusti, Giordano) in alcuni talk show politici nostrani (che, tra l’altro, Renzi si guarda bene dal frequentare). Ma una somma di parzialità non fa pluralismo. E poi una cosa è andare in onda con percentuali di share largamente a due cifre, altra con risicati ascolti del 5 o 6%.