«Mi lasci dire che sono particolarmente sorpreso dall’interesse che il mondo esterno, specialmente l’Occidente, sembra avere per Gandhi. Non riesco a capirlo. Per quanto riguarda l’India, a mio giudizio, egli è stato un episodio nella Storia dell’India, mai un uomo che ha cambiato un’epoca. Gandhi è già svanito dalla memoria del popolo di questo paese. La sua memoria è mantenuta viva perché il partito del Congress [Indian National Congress, il partito del Mahatma Gandhi e principale fautore dell’Indipendenza indiana, ndt] a scadenza annuale dichiara una festività o per il suo compleanno o per un qualsiasi giorno legato a un evento della sua vita. Le celebrazioni annuali si prolungano per sette giorni la settimana e naturalmente ravvivano la memoria del popolo. Se questa respirazione artificiale non gli venisse fornita, Gandhi sarebbe già stato dimenticato da molto tempo».

Correva l’anno 1955 e Bbc Radio mandava in onda un’intervista di poco più di 20 minuti a un personaggio all’epoca centrale nel dibattito politico dell’Asia Meridionale. A soli sette anni dall’assassinio del Mahatma Gandhi, nel pieno della giustificabile frenesia agiografica che circondava il ricordo della Grande Anima in India e nel mondo, per pronunciare frasi di quel tenore occorreva disporre di una riserva di spregiudicatezza iconoclasta non comune.

Qualità che a Bhimrao Ramji Ambedkar, nato nel 1891 in una famiglia di intoccabili (di seguito dalit, usando l’originale in lingua hindi), di certo non è mai mancata. Essere dalit durante il Raj Britannico significava subire sistematiche discriminazioni sociali basate sul concetto di predeterminazione su cui si poggia il sistema castale, la suddivisione inderogabile degli esseri umani di fede hindu in quattro macrogruppi – brahmani, i sacerdoti; ksatrya, i guerrieri e gli amministratori; vaisya, contadini, allevatori e mercanti; sudra, i servitori – più uno tanto deprecabile da essere messo fuori lista: gli avarna, gli impuri senza casta o, utilizzando il termine dal sanscrito per «oppressi» reso popolare proprio da Ambedkar, i dalit.

In quanto dalit, sempre per motivi di «purezza», al giovane alunno B. R. Ambedkar non era permesso sedere in classe col resto dei compagni e, come per migliaia di famiglie dalit in tutta l’India, era proibito risiedere nelle vicinanze di famiglie non-dalit, camminare per le loro strade, utilizzare i loro pozzi, socializzare coi loro figli. Seguendo, involontariamente, i precetti gramsciani di istruzione, agitazione e organizzazione, Ambedkar trova l’emancipazione personale nell’apprendimento, diventando il primo dalit in assoluto a entrare alla Bombay University, il primo dalit a laurearsi in economia e scienze politiche, il primo dalit a vincere una borsa di studio per l’estero, il primo dalit a frequentare la Columbia University di New York e a ottenere un master in economia, un dottorato di ricerca e un post-doc alla London School of Economics.

È il 1917 e Ambedkar, con la scadenza della borsa di studio, a 26 anni rientra nel subcontinente indiano con un bagaglio culturale straordinario ma, sempre e comunque, con l’indelebile etichetta di dalit. Costretto a lasciare la città di Baroda, nell’attuale Gujarat, poiché nessuno voleva affittare la propria casa a un dalit e mettere i propri risparmi nelle mani di un contabile preparatissimo, ma pur sempre impuro, Ambedkar si trasferisce a Bombay intraprendendo la carriera forense e, in parallelo, mettendo la sua professione al servizio del movimento di liberazione dei dalit.

Durante i lunghi anni di trattative per definire il passaggio di consegne formale dalla corona britannica a quella che sarebbe divenuta la più grande democrazia del mondo, Ambedkar capì che la costruzione dell’India indipendente non solo non poteva prescindere dalla liberazione dei dalit, ma che il passaggio storico poteva essere l’occasione per scardinare in toto il sistema castale, riformando completamente l’India del domani. Un’India in cui il valore e le possibilità di ciascuno non fossero determinate dall’appartenenza castale.

Un’aspirazione che, per motivi ideologici e di aritmetica politica, lo vide scontrarsi a più riprese con un Mohandas Gandhi già in versione santificata. Il Mahatma, pur di non smembrare la grande famiglia hindu, da un lato forzò la propria posizione con uno sciopero della fame e della sete per evitare la creazione di un elettorato separato riservato ai dalit, dall’altro sovradeterminò la battaglia radicale di Ambedkar – aboliamo le caste – con una lotta delle apparenze contro l’intoccabilità.

Ai dalit a cui era negata l’acqua dei pozzi e, nelle campagne, veniva fatta indossare una sputacchiera appesa al collo per raccogliere la propria saliva impura, così da non contaminare il passo di un hindu distratto,

Gandhi offrì la prospettiva di un induismo benevolo. Nel solco dei movimenti riformatori hindu dell’epoca, formati in massa da rappresentanti di caste alte, ai dalit fu man mano permesso l’accesso ai luoghi di culto hindu e si incoraggiarono innovazioni ragguardevoli, ma non radicali, nell’etichetta dei rapporti tra caste, come i matrimoni intercastali e cene dimostrative in cui membri di caste diverse, superando un tabù secolare, mangiavano uno a fianco all’altro.

L’idea, insomma, era rendere più accettabile il sistema delle caste senza abolirlo, mantenendo intatta un’organizzazione sociale mutuata dalla religione hindu e basata, banalmente, sulla diseguaglianza.

La storia andò come sappiamo. Il sistema castale nell’India di oggi è vivo e vegeto e, nonostante i meccanismi di «affirmative action» in vigore nelle scuole e nell’amministrazione della cosa pubblica, ogni anno la discriminazione intrinseca all’induismo miete migliaia e migliaia di vittime dalit. Nel 2017, e non solo nell’India rurale, i dalit sono ancora considerati meno uguali degli altri e vengono tenuti alla larga dai pozzi comuni, linciati, stuprati, malmenati e ostracizzati dalle manifestazioni di un induismo dimostratosi incapace di auto-riformarsi.

Un rischio che lo stesso Ambedkar, profeticamente, aveva messo nero su bianco durante la stesura del discorso di apertura dei lavori di una sessione della Jat-Pat-Todak Mandal (gruppo di riformisti hindu «anti caste») nel 1936. Il manoscritto, inviato al vaglio dei riformisti pochi mesi prima dell’evento, venne considerato irricevibile: più che un discorso di inaugurazione, si trattava infatti di una lunghissima arringa contro l’induismo, una vivisezione impietosa dei soprusi perpetrati contro i dalit nel nome della religione che non lasciava alcuno spazio di manovra a pretese di «riforma graduale». Una religione che nel 1956 Ambedkar, con un gesto estremo a soli due mesi dalla sua morte, abbandonò in favore del buddismo in una storica conversione di massa, seguito da 500mila sostenitori.

Al rifiuto di modificare il contenuto del discorso, la conferenza fu annullata e il pamphlet di Ambedkar, prendendo vita propria col titolo «Annihilation of Caste», diventò il documento simbolo della lotta per l’emancipazione dalit, ispirando generazioni di attivisti.

Nel 2014, con una coraggiosa presa di posizione editoriale, la casa editrice Navayana ne ha stampato un’edizione aggiornata preceduta da un saggio introduttivo di Arundhati Roy dal titolo «The Doctor and The Saint», mettendo a confronto le idee di India del «santo» Gandhi e del «dottore» Ambedkar. Una lettura obbligatoria per apprezzare luci e ombre del gandhismo e provare a immaginare un’India migliore, nel segno di Ambedkar.