La questione della disoccupazione, dei precari e del lavoro in generale, è uno di quei temi che, avendo superato i livelli di guardia, obbliga tutte le forze politiche ad avere una proposta politica per risolverla.

La questione è particolarmente complicata dallo specifico del nostro paese, cioè da una realtà produttiva in nessun modo assimilabile a quella degli altri paesi coinvolti nella crisi economica internazionale. Il motivo è semplice, come alle volte, ma raramente, in un improvviso impeto di sincerità, viene ammesso anche dalle autorità responsabili: la nostra crisi nasce ben prima di quella internazionale ed ha cause proprie che si aggiungono a quelle prodotte dalla crisi internazionale.

Andando oltre il «buco culturale», è sempre più evidente che esiste anche una ideologia che batte ogni raziocinio: pensare di accrescere l’occupazione riducendo il costo del lavoro, almeno quello pagato complessivamente dalle imprese, significa sostenere che la nostra economica soffre di una crisi competitiva da costi e, in particolare, da costo del lavoro. Non dovrebbe essere difficile dimostrare questa ipotesi, ma per ora prove in materia non nè esistono.

Sono molti anni che il nostro paese perde quote dei mercato internazionale, che si colloca su specializzazioni produttive non al culmine della domanda mondiale, che abbiamo un valore aggiunto per unità di prodotto più basso di quello ottenuto da nostri concorrenti. Pensare che tutto questo dipenda da un nostro costo del lavoro, relativamente troppo alto, è evidentemente un effetto della deformazione ideologica.

Ci sarebbero ragioni e dati più che sufficienti per riflettere sulle politiche: sbagliare strategia, in questo campo, sarebbe un suicidio per il paese.

La riduzione del costo e dei diritti del lavoro è una via perseguita da alcuni lustri, con degli effetti che vediamo ogni giorno. La semplificazione liberista secondo la quale occorre solo lasciare operare il mercato e la libera concorrenza per ristabilire il pieno e corretto impiego delle risorse disponibili, sono una «verità» smentita dai fatti già ai tempi di Keynes; in una economia aperta e tecnologica, come quella attuale, tentare di creare una condizione come quella auspicata dai liberismi vari, sarebbe impossibile come obiettivo.

Comprendere le cause della gravita dei nostri trend occupazionali dovrebbe essere, quindi, la prima fatica da portare avanti, per evitare che le cure proposte possano essere peggiori del male che si vuole curare. La gravità della situazione occupazionale, 6 milioni e passa di disoccupati, ha un fronte che deve essere affrontato: attiene all’urgenza degli interventi e, in particolare, agli effetti occupazionali attesi.

L’urgenza delle misure da adottare non possono essere implementate dal nostro sistema produttivo in ragione di vincoli di struttura. Non si tratta di una operazione in due tempi, ma di due operazioni contemporanee e con alcune coerenze reciproche, ancorché non vincolanti sul piano operativo. I vincoli per questa seconda linea d’interventi, caratterizzati dalla possibilità di tradursi in breve in nuovi investimenti, non devono gravare sulle importazioni, e devono coinvolgere il locale e concorrere all’elevazione del sistema dei servizi sociali. Si tratta di condizioni e policy concomitanti, con una particolare cura all’equilibrio territoriale (Mezzogiorno).

Si tratta di elaborare e attuare una efficace politica industriale, partendo dalla raccolta di tutte le possibili risorse pubbliche e private esistenti, e di trattare con l’Unione Europea una revisione degli attuali vincoli finanziari.

Ognuno di questi passaggi implicano l’esistenza di competenze e convinzioni coerenti, cioè di una classe dirigente all’altezza della situazione; un cambiamento molto importante.