«Prima è arrivata la Cina, poi Pakistan e Bangladesh. Ora anche la Russia ha iniziato a produrre borse e prodotti in pelle, mettendo in ginocchio l’industria tessile locale». Sono le parole con cui Yacin Yanik descrive l’impasse del settore in cui opera dagli anni Settanta. Turco 56enne di origine africana, è referente del Deri tekstil ve kusura isçileri dayanisma ve yardimlasma dernegi, il «sindacato dei lavoratori del cuoio, del tessile, e delle calzature», da lui fondato trent’anni fa. Lo incontriamo a Izmir, la terza città turca per dimensioni fiorita grazie al turismo e all’importante polo industriale locale, in particolare tessile, ma divenuta famosa con la guerra civile siriana quale capitale del traffico dei migranti diretti in Europa.

Yacin siede su una sedia rattoppata alla meglio schiacciata in un angolo del suo minuscolo laboratorio, nove metri quadri occupati da un piano da taglio, una cucitrice e altre strumentazioni per la lavorazione della pelle. Qui opera come artigiano, e tra una commessa e l’altra coordina l’attività sindacale «di impronta comunista», spiega con orgoglio, malgrado l’impegno politico non sia un requisito per gli iscritti, «basta condividere le finalità del sindacato, e lottare per i diritti dei lavoratori». Diritti quali assicurazione sanitaria, rappresentanza sindacale, festività retribuite, salari minimi adeguati, sicurezza, un tempo garantiti, ma oggi di fatto sacrificati per ridare competitività all’industria tessile. «Trent’anni fa era più semplice – assicura – con la globalizzazione dei mercati i laboratori hanno iniziato a lavorare sempre meno. Ora le commesse si assegnano al ribasso, in una sorta di asta al contrario». Gli operai vengono pagati a pezzo, pertanto velocità di esecuzione e stress aumentano, perdendo in qualità e sicurezza. «Se non bastasse i tempi di consegna si sono ridotti drasticamente, con picchi concentrati in brevi periodi dell’anno, così gli operai devono sopportare turni lunghissimi, molti giorni di fila».

Per rimanere sul mercato l’imperativo è “competitività”, da cui la fioritura di laboratori clandestini che sfruttano il lavoro nero, capaci di assorbire una grossa parte delle commesse. «Le cose sono peggiorate con l’arrivo dei rifugiati siriani», aggiunge Yacin. Decine di migliaia di persone in fuga dalla guerra, e disposte ad accettare condizioni di lavoro misere a salari ridotti, pur di accumulare quanto basta per pagare un passaggio in gommone attraverso l’Egeo, sino in Grecia e poi oltre, in Europa.

Questo ovviamente prima dell’accordo tra Ue e Turchia del 18 marzo scorso, anticipato dalla chiusura della Via dei Balcani e seguito dal ridimensionamento dei passaggi verso le isole. Ora le priorità sono altre. Intere famiglie siriane restano bloccate a Izmir in attesa di sapere cosa accadrà, stipate all’interno di appartamenti fatiscenti pagati a peso d’oro, disseminati nel quartiere di Basmane. A tenerle al mondo sono i loro nomi e cognomi, incastrati nelle liste di richiesta asilo rivolte in Europa, e un salario stracciato riconosciuto a singhiozzo, guadagnato con il lavoro svolto in qualche sottoscala di Izmir.

Malgrado la timida apertura di Ankara verso i siriani, con la possibilità di ottenere il kimlik, carta di identità che riconosce lo status di ospite permanente e l’accesso a servizi e lavoro, per i rifugiati le chance di impiego restano limitate al lavoro nero. Ciò implica turni di 12 ore al giorno 6 giorni la settimana, pagati circa 800 lire turche al mese, contro un salario minimo di 1300 lire. Di questi soldi, 400 lire vanno per l’affitto di un seminterrato ammuffito a Basmane, e il resto per mangiare ogni giorno. In base alle leggi turche, spetta a chi assume richiedere il permesso di lavoro per i propri dipendenti, ma questo comporta tasse e costi aggiuntivi, pertanto è quasi impossibile che la manovalanza siriana venga messa in regola. «Nel passato ci sono state delle proteste da parte degli operai turchi contro i lavoratori clandestini siriani – conclude Yacin – abbiamo cercato di mediare, spiegando ai turchi che la colpa non è dei siriani ma dei datori di lavoro che non offrono alternativa».

Particolarmente preoccupante è la condizione di bambini e minorenni, spesso costretti a lavorare al pari degli adulti, a salari ancora inferiori. Secondo le stime Unicef, su 2,7 milioni di rifugiati siriani registrati in Turchia la metà sono bambini, l’80% dei quali in età scolastica ma non hanno possibilità di ricevere un’istruzione. Probabilmente, anche questi bambini rientrano tra i «ladri di lavoro» o «terroristi» che hanno giustificato la chiusura europea, spazzando via Schengen e la Convenzione di Ginevra. Un bagno di vergogna comunque utile, dicono, per salvare l’Europa e i suoi posti di lavoro. Almeno fino a giugno, quando 75 milioni di turchi otterranno accesso al Vecchio Continente senza dover richiedere un visto, così come stabilito dall’accordo siglato lo scorso marzo a Bruxelles tra Ue e Turchia.