Alle Agorà dem proposte da Enrico Letta è giusto esserci. Siamo nati per costruire una sinistra larga e plurale, non per contemplare il nostro ombelico identitario. E, come abbiamo detto all’assemblea nazionale di Articolo Uno del 14-15 maggio “Quello che ci unisce”, ci interessano tutti i luoghi dove è possibile costruire un campo di progresso.

Lo faremo anche alla nostra Festa nazionale di Bologna, Unica, da oggi al 26 luglio, orgogliosi della nostra autonomia, ma consapevoli che le Agorà certificano – per i più piccoli e per i più grandi – che nessuno basta a se stesso.

Vogliamo rendere stabile l’alleanza giallorossa per la giustizia sociale e lo sviluppo sostenibile, per noi una scelta da cui non si torna indietro.

Serve tuttavia una svolta nel campo della sinistra democratica, un nuovo inizio come fu nell’89. Interpreto le Agorà come un tentativo in questa direzione, noi ci saremo per fare questa battaglia.

Il Covid-19 ci dice che è caduto il muro del neoliberismo e soltanto una sinistra che riacchiappa la questione sociale e climatica può interpretare un tempo nuovo. Innanzitutto, il grande nodo della rappresentanza politica del lavoro.

Il lavoro è solo, impoverito, precarizzato, esposto a ogni sopruso, pensiamo all’uso disinvolto delle delocalizzazioni in alcuni settori.

È urgente una legge sulla rappresentanza, che disboschi la selva insopportabile di contratti e contrattini, restituendo voce e democrazia a chi lavora. Serve un principio di giustizia sociale e fiscale inequivocabile: chi ha di più deve contribuire di più al rafforzamento di welfare e beni comuni, come salute, tutela ambientale, istruzione e ricerca.

Ma almeno altri tre nodi vanno sciolti.

  1. Una politica che vuole contare deve riabilitarsi. La questione morale esiste anche perché i partiti non pesano quasi più nulla. Lavorano ai margini di scelte costruite e pensate altrove. Questo indebolimento della politica viene da lontano, da una rinuncia alla guida dei processi. Ma anche da ingenue e gratuite forme di amputazione della sua autonomia, come il taglio del finanziamento pubblico: la ricostruzione di forme organizzate di militanza e comunità, costano. Ripristino della forza della politica significa salvare la democrazia, liberandola dal ricatto di avventurieri, lobbisti, camarille.
  2. Non esiste sinistra senza un’idea di mondo. A 20 anni dal G8 di Genova e dall’affacciarsi di movimenti che posero il tema di un altro modello di sviluppo, il mondo non è mai stato così attraversato da guerre per procura, esodi biblici a causa dei cambiamenti climatici, ingiustizie sociali che scandiscono la vita di società opulente incapaci di regolare il multiculturalismo e la convivenza. Serve una sinistra che recuperi una visione euromediterranea, una forza della cooperazione e della costruzione di un campo della pace, a partire dal conflitto mediorientale, che non abbia paura di prendere parte là dove si consuma un vero e proprio regime di apartheid. Il dibattito sul ritorno dell’atlantismo appare conformista, limitando una politica estera autonoma dell’Unione europea che respinga una nuova guerra fredda e non sia più solo custode dei vincoli di bilancio. Insomma, un europeismo di nuovo conio.
  3. Se è cambiato tutto, deve cambiare anche l’offerta politica. Non si può ridurre questo alla disputa su leadership e simboli. Serve un nuovo compromesso tra democrazia partecipativa e rappresentativa, rompendo la stagione di classi dirigenti fedeli e cooptate, che nasca dalla consapevolezza di chi vuoi rappresentare, per cosa vuoi lottare. Il populismo ci ha consegnato un’idea di politica trasversale a tutti gli interessi.

Ma ambire a rappresentare tutti porta a rappresentare solo i più forti. È il limite del centrosinistra di questi anni: la politologia ha preso il sopravvento sulla sociologia, scivolando nell’ambiguità della cosiddetta vocazione maggioritaria. Un nuovo soggetto politico si forma così. Questa visione si avvicina molto alla parola ecosocialismo. Mi piacerebbe che l’approdo del percorso portasse in quella direzione. Ci proveremo.