All’incontro nazionale di Non una di meno, che ha riunito a Bologna il movimento delle donne in vista dello sciopero globale dell’8 marzo, uno degli otto tavoli in discussione è stato quello sul Femminismo migrante. Lì abbiamo incontrato Sabrina Marchetti. Professoressa associata all’università Ca’ Foscari di Venezia, Marchetti si occupa di razzismo e sessismo, in particolare rispetto ai diritti delle lavoratrici domestiche del mondo. Su questo tema, ha preso parte a un’importante ricerca collettiva, a cura di Raffaella Maioni e Gianfranco Zucca, pubblicata da Ediesse a dicembre con prefazione di Livia Turco e postfazione di Maria Gallotti. Il libro racconta «chi sono, cosa fanno e come vivono le badanti che lavorano in Italia», paese ai primi posti in Europa per numero di lavoratrici domestiche e di cura: 886.000 quelle regolarmente iscritte all’Inps nel 2015. Il volume offre, però, anche un’ampia contestualizzazione a livello internazionale con l’obiettivo di evidenziare il nesso tra globalizzazione, disuguaglianze e lavoro di cura.

Com’è nato questo libro e con quali intenti?
Si tratta di un lavoro collettivo realizzato grazie all’impegno di un’associazione di lavoratrici domestiche e di cura, di solito definite badanti, con il supporto delle Acli, la cui organizzazione è presente su tutto il territorio nazionale e spesso anche nei paesi di provenienza delle migranti, per esempio in Sudamerica. Questo ha reso possibile preparare una serie di questionari in 177 comuni d’Italia per un totale di 877 interviste: forse la più grande inchiesta sulla quotidianità delle lavoratrici domestiche e di cura. Abbiamo indagato diversi elementi, sia sul piano della fruizione dei diritti lavorativi (l’esistenza di un contratto e i termini) che su quello delle possibili vulnerabilità sul luogo di lavoro. Sappiamo che spesso le lavoratrici domestiche che assistono persone malate o anziani con problemi fisici, di senilità o demenza, rimangono nelle case per 24 ore e sono soggette a forme di abuso, sia lavorativo che personale, psicologico o fisico. Abbiamo investigato il tema del benessere delle donne nel lavoro, il tipo di professionalità che cercano di proiettarvi, la possibilità o meno di passare ad altre forme di lavoro più qualificate o di tornare a svolgere quelle che esercitavano nel proprio paese. Un lavoro complesso, portato avanti da un comitato scientifico di diverse esperte, che si sono incontrate più volte nell’arco di circa due anni per elaborare un questionario molto articolato che si è avvalso del supporto delle operatrici dei cosiddetti Sportelli badanti nelle sedi di Acli Colf sul territorio, e dell’intervento di un ricercatore, Gianfranco Zucca, che ha realizzato dei focus group di preparazione ai questionari. Zucca lavora nel centro di ricerca Iref. Ha curato il libro insieme a Raffaella Maioni, responsabile nazionale di Acli Colf. Il lavoro è stato condotto da un gruppo di ricercatrici esperte, attive presso università e centri di ricerca indipendenti: Claudia Alemani, Raffaella Sarti, Olga Turrini e Francesca Alice Vianello. Siamo un gruppo abbastanza coeso che lavora insieme da anni su questa tematica, un esempio di piccola comunità scientifica al femminile. Inoltre, da alcuni anni, esiste una rete di ricercatrici a livello internazionale della quale io sono la responsabile a livello europeo, che si è data come compito quello di sostenere il movimento delle domestiche nel mondo. Il Research network for domestic workers’ rights è una rete di ricercatrici-attiviste, che cerca di tener conto degli obiettivi che il movimento delle lavoratrici domestiche si sta dando.

Un movimento che si è reso visibile con la lotta in diversi paesi. Qual è la situazione in Italia?
Il movimento esisteva già prima in diverse parti del mondo, ma in modo separato. In alcuni paesi, il lavoro domestico ha una lunga storia. In Italia esiste una legge che data del 1958. C’è stato un percorso di unificazione in coincidenza con il 16 giugno del 2011, con la Convenzione per i diritti delle lavoratrici domestiche approvata a Ginevra dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil). Da allora, quella data indica la giornata mondiale per i diritti delle domestiche. Quando l’Oil – che aveva già lavorato sul tema dei diritti del lavoro a domicilio – ha chiesto alle varie organizzazioni nazionali di compilare formulari per far capire quale fosse la condizione del lavoro domestico nei vari paesi, si è creato un network internazionale che ha messo in contatto donne di vari paesi e ha dato luogo alla Federazione internazionale delle lavoratrici domestiche, fondata nel 2012 in Uruguay con l’accompagnamento dell’allora presidente Pepe Mujica. Il loro sito è International Domestic Workers Federation. Ci sono state battaglie interessantissime in Messico, in Sudafrica, nelle Filippine, in India, a Hong Kong, dove le domestiche di origine indonesiana o filippina sono scese in piazza a fianco del movimento degli studenti. E’ un terreno molto fertile.

Qual è stato il suo oggetto di studio nel volume?
La parte di cui mi sono occupata, riguarda un tema assai delicato, quello dell’immagine che abbiamo del lavoro domestico, che spesso non corrisponde alla realtà. In Italia, viene svolto soprattutto da donne migranti, per le quali rappresenta uno strumento di conquista dei diritti in quanto uno degli ambiti in cui più facilmente viene concesso il permesso di soggiorno. E così, anche donne che in passato svolgevano un lavoro più qualificato, finiscono per lavorare in ambito domestico per avere di documenti, e poi rimangono in quel lavoro per anni senza possibilità di ritorno alla professione di prima. L’esperienza del lavoro domestico è però spesso molto lontana dall’immagine che ne abbiamo, spesso di una sorta di nicchia protetta. Le migranti, sono spesso soggette a violenze di diverso tipo all’interno della famiglia per cui lavorano. Intanto, il contratto che firmano di solito è di 26 ore, il minimo per ottenere il permesso di soggiorno, ma che non corrisponde alla realtà perché lavorano tutte full time e vivono nelle famiglie per 24 ore/7 giorni su 7. Quindi anche un contratto e un permesso di soggiorno ‘sulla carta’ non vanno visti come una conquista definitiva, perché poi occorre vedere quanto la lavoratrice sia consapevole dei diritti che a essi corrispondono: anche quello della consapevolezza, è un percorso. L’Italia è stata fra i primi paesi a ratificare la Convenzione Ilo 189. Si è però immediatamente posta in una contraddizione perché la C189 chiede che le lavoratrici domestiche abbiano gli stessi diritti delle altre categorie e in realtà questo in Italia non avviene, nonostante la legge del 1958: per esempio sul divieto di licenziamento durante la maternità. L’Italia è perciò inadempiente, e si teme che anche nel rinnovo contrattuale adesso in via di definizione, non verranno apportate le necessarie modifiche. C’è bisogno di maggior visibilità sul tema. Spesso le famiglie stesse dicono alle badanti: «Hai fin troppi diritti, e uno stipendio fin troppo alto». E purtroppo questo ha anche un fondo di verità perché a volte gli anziani che sono obbligati a prendere una badante per la carenza di servizi pubblici hanno pensioni basse. E così si innesca una guerra fra poveri.

Temi che sono emersi nel tavolo sul Femminismo migrante
Il movimento delle donne si è posto di fronte a una grandissima sfida, quella di ragionare nella prassi sull’intersezione tra femminismo e razzismo, quindi sul classismo, sulla negazione dei diritti di cittadinanza e su tutti i possibili assi lungo i quali si costruisce la disuguaglianza in un contesto capitalista e neocoloniale. Una sfida che ci interpella anche rispetto ai privilegi che ci dividono. Per questo è difficile trovare parole che aggreghino. Speriamo di farlo per l’8 marzo e nella costruzione comune di un Piano femminista nazionale contro la violenza di genere.