Nel giorno dell’Eurogruppo chiamato a decidere di un nuovo prestito da undici miliardi alla Grecia di Alexis Tsipras che ha fatto i compiti a casa comminando un’altra razione di austerity a un popolo stremato, Bruxelles è tornata in piazza. Stavolta non c’entrava direttamente l’Europa, nonostante la coincidenza, ma ancora una volta le politiche lacrime e sangue imposte alla popolazione. Nel mirino il premier belga Charles Michel e il suo governo di centrodestra: sotto lo slogan «la misura è colma», le principali sigle sindacali del paese sono scese in piazza contro le misure per aumentare la flessibilità sul lavoro (analoghe al Jobs Act italiano e alla legge El Khomri francese).

Superato lo choc degli attentati, i belgi questa volta hanno sfilato in massa: 60 mila i manifestanti per le strade della capitale, secondo la polizia, curiosamente 10 mila in più di quelli dichiarati dai sindacati. Arrivati all’altezza della Gare du Midi, la stazione centrale della città, sono scoppiati duri scontri con gruppi di dimostranti. La polizia ha usato lacrimogeni e idranti per disperdere il corteo, quattro manifestanti e un commissario di polizia sono finiti in ospedale. La Croce Rossa ha fatto sapere di aver soccorso, a sua volta, 16 partecipanti alle proteste e tre agenti. Al termine, sono stati 23 i fermati, nessuno dei quali, secondo fonti giudiziarie, è iscritto ai sindacati.

Il governo Michel, già in difficoltà dopo la pessima gestione della sicurezza per gli attentati islamisti e costretto ad applicare una ricetta di rigore che, per i sindacati, negli ultimi due anni è costata ai cittadini belgi cento euro al mese, ha accusato il colpo. Il premier ha condannato le violenze ma ha dovuto «prendere atto» dell’ampiezza della mobilitazione e del malcontento popolare. Le organizzazioni dei lavoratori sono ancora molto forti in Belgio, che ha un tasso di sindacalizzazione molto alto: il 55,1 per cento. E il capo di governo di un Paese che non attraversa un buon momento dal punto di vista economico-sociale potrebbe non reggere allo scontro con i sindacati, che in Belgio sono ancora molto forti (il 55,1 per cento dei lavoratori è sindacalizzato). Il governo non ha ancora superato la prova degli attentati: la chiusura dell’aeroporto di Zaventem ha provocato un crollo del 30 per cento delle presenze a marzo e l’impatto sul Pil è stato calcolato in un -0,1 per cento.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso del malcontento è stata la cosiddetta legge Peeters sul lavoro. Annunciata alla metà di febbraio e presentata poi ad aprile dal vicepremier e ministro del Lavoro Kris Peeters con l’obiettivo di rendere il lavoro «flessibile e maneggevole», ha fatto insorgere i sindacati. Le misure sono molto simili a quelle previste dalla legge El Khomri in Francia (presentata da un governo socialista). Tra queste, l’aumento delle ore lavorative settimanali da 38 a 45 (nove al giorno). Un cambiamento che, secondo la destra al governo in Belgio, dovrebbe permettere di rispondere al meglio alle esigenze di produttività delle azioende e di accordare «una maggiore libertà ai lavoratori per organizzarsi in funzione delle loro esigenze familiari», un modo originale per definire la flessibilità. Il progetto di legge prevede pure la possibilità di arrivare fino a 11 ore di lavoro al giorno, 50 alla settimana. Al contrario, sono state già ridotte le tasse alle imprese e aumentate quelle per i cittadini, dall’Iva sull’elettricità alle imposte su alcol, tabacco e benzina diesel.

Contro la riforma del lavoro si sono mobilitati non solo i sindacati. Venti organizzazioni giovanili hanno messo in piedi una Coalizione per il ritiro della legge Peeters e hanno risposto all’appello a scendere in piazza lanciato dai tre principali sindacati: la Fgtb (socialista), la Csc (la Confederazione dei sindacati cristiani) e la Gslb (liberale). La mobilitazione è appena cominciata. Per il 31 maggio sono previste altre azioni, in particolare nei servizi pubblici, mentre per il 24 giugno è stato indetto uno sciopero generale.