Grazie, e allora? Lavoro non ce n’è, e quando c’è fa schifo. Umilia. Lo sappiamo. Basta frugare nelle nostre vite, o saper guardare quelle di chi ci sta attorno e si affanna sempre più per tirare avanti in qualche modo. Poi arriva l’ennesimo rapporto di conferma. In Italia ci sono oltre 9 milioni di persone «nell’area della sofferenza e del disagio occupazionale, tra disoccupati, scoraggiati e cassa integrati, e part time involontari» (lo certifica l’associazione Bruno Trentin-Isf-Ires della Cgil).

Probabilmente sono di più. Non sono solo statistiche, e ad ogni rapporto è come guardarsi allo specchio per scoprire che siamo sempre più conciati e paralizzati di prima. Allora non resta che dare un’altra occhiata ai numeri, anche se in assenza di una terapia d’urto – un moto di ribellione, una presa di coscienza collettiva dura e determinata – è sempre più deprimente e scoraggiante sentirsi diagnosticare ogni volta lo stesso male. Poi finisce che ci si rassegna a galleggiare «nell’area della sofferenza», scoraggiati.

Il rapporto – che ha per titolo Gli effetti della crisi sul lavoro in Italia – prende in esame i dati relativi al primo trimestre del 2013 comparandoli allo stesso periodo dell’anno precedente. La situazione è drammatica, tanto più che bisogna tenere presente che le assunzioni sono sempre superiori nei primi mesi dell’anno mentre le cessazioni di lavoro aumentano toccando il picco massimo negli ultimi mesi: rispetto allo stesso trimestre dello scorso anno i nuovi rapporti di lavoro attivati sono 238 mila in meno (-10,4%), mentre quelli cessati sono 84.378 in meno (- 4,2%). Dunque, in questa fine d’estate la situazione probabilmente è peggiore che nel periodo gennaio/marzo, quando “in sofferenza” sono state registrate 9 milioni 117 mila persone in età da lavoro. Sconvolgono anche i numeri che fotografano il precipitare della situazione. Rispetto all’anno precedente «si è registrato un incremento complessivo del 10,1%» (835 mila persone in più), mentre rispetto al primo trimestre del 2007 l’aumento del «disagio occupazionale» è stato del 60,9%: nel giro di sei anni 3 milioni e mezzo di persone in più sono state costrette a cambiare vita e soprattutto prospettive per “colpa” del lavoro che non c’è o che non permette di vivere decentemente.

Il rapporto Cgil, per fare un po’ di chiarezza, anche se sarebbero da approfondire i criteri di valutazione della “sofferenza” da lavoro, ha individuato due segmenti di popolazione. C’è l’area più svantaggiata (disoccupati, scoraggiati e cassaintegrati) che «si attesta a 5 milioni e 4 mila persone», mentre quella del “disagio” (precari e part time involontari) che comprende 4 milioni e 113 mila soggetti. Fulvio Fammoni, presidente dell’associazione Bruno Trentin, legge questi dati parziali come «un aspetto del progressivo deterioramento del mercato del lavoro italiano, fra cui il dramma della disoccupazione giovanile, l’emergenza del Mezzogiorno, l’aumento della disoccupazione di lunga durata, il permanere di un’alta quota di inattività, un part time involontario in costante crescita dal 2007, l’anomalia di una precarietà non solo subita ma che, contrariamente a quanto si afferma, non porta più occupazione nonostante sia la forma di ingresso al lavoro nettamente prevalente».

Fammoni ha sottolineato più volte l’eccesso di precarietà esistente e l’ipocrisia strumentale di una certa area (centrosinistra compreso) che continua a chiedere e pretendere meno rigidità sul mercato del lavoro. Sono altri numeri che fotografano la qualità, bassa, del lavoro in Italia. Le assunzioni effettuate nel primo trimestre del 2013 sono nel 64% dei casi con contratti a tempo determinato, solo il 19% a tempo indeterminato, l’8,4% con contratti di collaborazione e solo il 2,5% con contratto di apprendistato. «La realtà dei numeri – scrive Fammoni sul sito dell’associazione – dimostra che non serve ulteriore flessibilità sul tempo determinato. Quello che serve è creare più lavoro e indirizzarlo verso le forme più stabili. Il numero davvero basso di utilizzo dell’apprendistato indica come la scelta delle imprese non è solo basata sul costo (il tempo determinato costa certamente di più) ma prevalentemente sulla possibilità di interrompere il rapporto di lavoro quando si vuole».

Si chiama precariato spinto a livelli non più sopportabili per le generazioni più giovani: fra chi lavora, e sono pochi, il 52,9% ha un contratto precario (quasi il doppio rispetto al 2000). E si chiamano “lavori” anche se solo un quinto dura più di un anno, mentre più della metà non durano nemmeno tre mesi, e tra questi prevalgono nettamente i rapporti di lavoro della durata di un mese. Poco sopra l’elemosina, appena più gradevole della schiavitù.