Appena passata la mezzanotte, appena finiti i botti e poggiato il calice, per i lavoratori è arrivata la fregatura. Il 2015 si è aperto come si era chiuso il 2014. Ad un taglio dei diritti col pacco di Natale del Jobs act di Renzi, dal primo gennaio ha fatto seguito il taglio in busta paga di almeno di un centinaio di euro per i circa 50mila lavoratori in solidarietà. La ragione è presto detta: il governo Renzi ha deciso di non rifinanziare i 40 milioni necessari ad integrare al 70 per cento la parte di stipendio perso per i lavoratori in contratto di solidarietà. Quota che fino al 2013 era perfino dell’80 per cento.

Oltre al danno sta però arrivando la beffa. E un livello di incoerenza da record per lo stesso governo. Il contratto di solidarietà – lo strumento alternativo alla cassa integrazione con cui sindacati e azienda si accordano per «lavorare meno, lavorare tutti» – sarebbe infatti un punto fermo della strategia in fatto di lavoro per Renzi e i suoi ministri.

Con la defiscalizzazione dei contratti di solidarietà – un finanziamento una tantum di 15 milioni – si è risolta l’unica grande crisi aziendale che il governo possa dire di aver contribuito a chiudere – l’Electrolux, lo scorso maggio – seguendo però le indicazioni del sindacato – per primo la Fiom Cgil – che ha sempre spinto per questa soluzione che garantisce più operai al lavoro e con salari più alti rispetto alla cassa integrazione.

Anche per questo motivo il contratto di solidarietà è più volte menzionato nella delega del Jobs act: si prevede una forma di contratti di solidarietà espansivi – ridurre lo stipendio per assumere nuovo personale o precari – e di ridurre l’uso della cassa integrazione solo dopo l’esaurimento delle possibilità di riduzione di orario – contratti di solidarietà in primis. Ecco dunque come la decisione di non rifinanziare i 40 milioni nel decreto Milleproroghe appaia totalmente incoerente. Alcune Regioni – come la Toscana – hanno già assicurato un finanziamento per innalzare l’integrazione. Ma sono una minoranza.

Col 2015 poi viene più che di dimezzata la durata della copertura della Cassa integrazione in deroga. Già tagliata a soli 11 mesi – dai precedenti 24 – dall’agosto scorso, con lo stesso decreto si è previsto di ridurla a soli 5 mesi per il 2015. Il numero dei lavoratori che sopravvivono grazie a questo ammortizzatore sociale è calato dagli oltre 110 mila del 2012 ai 30mila di fine 2013 a causa dei criteri molti più restrittivi – per stessa ammissione del ministero del Lavoro – «del rallentamento nell’emanazione dei decreti di autorizzazione». Ma non per mancanza di richieste da parte delle aziende. La cassa in deroga – l’unico ammortizzatore a totale carico della collettività – già per la riforma Fornero dovrebbe sparire nel 2016. Ma a sostituirla non saranno certo i Fondi di solidarietà lanciati dalla stessa Fornero: in tre anni gli accordi firmati tra imprese e sindacati si sono limitati a pochissimi settori rispetto all’oceano di quelli scoperti dalla “cassa” ordinaria.

Ma le beffe per i lavoratori per il nuovo anno sono ancora tantissime. Una delle più inaccettabili è quella degli innalzamenti dei compensi annuali per vedersi riconosciuti i contributi pensionistici. Dal primo gennaio i lavoratori dipendenti o professionisti per non perdere un anno di contributi dovranno raggiungere quota 15.563 euro, pari a 1.297 euro mensili: un salario lordo tutt’altro che scontato per buona parte di precari e cassintegrati.

Il tutto per tacere dei grandi buchi neri della sciarada di nuovi ammortizzatori – Naspi, Asdi, Discoll – previsti nel secondo decreto del Jobs act. Tutti senza copertura finanziaria.