Racconta il domenicano Etienne de Bourbon che nel 1240 un usuraio di Digione dispose di sposarsi presso la chiesa di Notre-Dame. Pochi istanti prima di accedere al tempio, costui fu ucciso da una statua di pietra staccatasi all’improvviso dal portale. A schiacciarlo fu l’immagine scolpita di un uomo «con la borsa», ossia di un usuraio, effigiato «nell’atto di essere trascinato all’inferno dal diavolo». Così, conclude il predicatore, «l’usuraio di pietra escluse dalla chiesa quello vivente che i preti non escludevano».
In questo exemplum è stato riconosciuto il riverbero di una mentalità diffusa presso la Chiesa dell’epoca. La condanna del prestito a interesse mostrerebbe inoltre la sostanziale incompatibilità tra religione medievale ed economia moderna: un’incompatibilità che Jacques Le Goff ritenne di poter giudicare all’origine della lentezza con cui in Europa venne ad affermarsi una società di mercato basata sul denaro.

Un conflitto in scena
Che il quadro sia però più complesso, è suggerito da un recente studio di Giuliano Milani, L’uomo con la borsa al collo Genealogia e uso di un’immagine medievale (Viella, pp. 294, € 30,00), nel quale il pensiero economico della Chiesa è esaminato, come da titolo, attraverso la storia di un’immagine: quella appunto dell’uomo con la borsa al collo, evocata anche nell’aneddoto riassunto in apertura. Quali significati esprime questa immagine? A quale funzione assolve, e in quali contesti?

Ritorniamo all’exemplum del frate domenicano. Anzitutto, è facile osservare che nel racconto viene messo in scena un conflitto: la provvidenziale caduta della statua impedisce il compimento di un’azione che i «preti» digionesi avrebbero tollerato. La chiesa di Notre-Dame era strettamente legata alle istituzioni cittadine, tanto che il consiglio comunale si riuniva tra le sue mura. L’accusa che soggiace all’aneddoto sembra perciò indirizzarsi contro chi reggeva le sorti della città a discapito di altri gruppi di potere, quali ad esempio i duchi, a cui l’ordine domenicano era politicamente prossimo; e al contempo contro il clero parrocchiale, che ai rappresentanti del comune forniva supporto ricevendone in cambio favori economici. Così ripensata, la novella perde «l’aspetto teleologico di un conflitto tra i difensori del vecchio e i portatori del nuovo» per acquisire quello, più sottile, di uno scontro tra forze politiche concorrenti. Stando alla ricostruzione di Milani, la natura per così dire fluida delle accuse formulate dalla Chiesa circa l’uso improprio del denaro appartiene alle origini stesse dell’impiego politico della raffigurazione dell’uomo con la borsa al collo.

Fin dalle sue prime occorrenze, l’immagine serve a rappresentare l’avaro, colui che accumula ricchezze indotto dalla cupidigia. Ma è nell’Europa della metà dell’XI secolo, all’epoca della riforma della Chiesa promossa da Alessandro II, che la stessa immagine inizia a circolare per individuare un nemico preciso: il cattivo amministratore dei beni comuni. L’analisi degli usi normativi dell’immagine permette di chiarire – così Milani – che l’ideologia che distingueva i buoni dai cattivi ricchi fu edificata in un momento in cui la Chiesa entrava prepotentemente nel mondo degli affari «come istituzione strutturata e gerarchica, ritrovandosi in competizione con altri poteri».

Secondo la retorica riformista, i cattivi amministratori delle ricchezze erano quei laici che attentavano all’autonomia della Chiesa partecipando alla gestione dei suoi beni. Le attività mercantili, tra cui il prestito a interesse, non erano considerate riprovevoli in sé: i guadagni eccessivi potevano sempre essere espiati tramite le elemosine. L’essenziale era che l’avidità dei laici non travalicasse il perimetro degli scambi «leciti», cioè estranei allo spazio di azione della Chiesa. In caso di trasgressione, la reazione poteva essere l’anatema, la più radicale delle maledizioni.

Nell’XI secolo, la moltiplicazione delle scomuniche e la diffusione dell’immagine dell’uomo con la borsa al collo procedettero assieme. E non è escluso che le misure punitive fossero comminate tramite rituali svolti proprio nei pressi dei luoghi in cui erano effigiati i nemici della «nuova» Chiesa, capitelli scolpiti con le immagini di usurai e simoniaci.

Il concreto potere giuridico affidato all’iconografia dell’uomo con la borsa al collo è evidentissimo anche nel contesto dei primi comuni guelfi retti dal «Popolo», ossia dagli iscritti alle corporazioni che non facevano parte dell’aristocrazia dei milites. Gruppo politico sostanzialmente nuovo, il Popolo si approprierà di questa immagine per legittimarsi: il che avverrà, ancora una volta, attraverso l’individuazione di un nemico.

Lo schema di Digione
I casi di Mantova e di Brescia (metà del XIII secolo), accuratamente analizzati da Milani, appaiono emblematici. A essere ritratti sulle mura dei palazzi comunali come avidi attentatori del bene comune sono i cavalieri confluiti pochi anni prima sul fronte imperiale.Da un certo punto di vista, lo schema di Digione si ripete. Se ne evince che la costituzione di nuovi ordini politici non implicava un effettivo ripensamento dei modi di amministrazione delle risorse, ma piuttosto una ricalibratura della retorica che all’impiego delle risorse si accompagnava. E non sfugge che la «moralizzazione» del discorso economico era, anche ai quei tempi, strumento tipico dei gruppi di potere privi di una consolidata tradizione ideologica: dunque, per così dire, più esposti alla coscienza della propria fragilità.