Provengono dalla lavatrice di casa una buona parte delle microplastiche disperse nei mari e sui suoli. Durante ogni lavaggio, dai tessuti che laviamo si staccano minuscole fibre tessili (inferiori ai 5 mm) che non vengono trattenute né dai filtri delle lavatrici né da quelli dei depuratori civili e quindi finiscono nell’ambiente, insieme alle sostanze chimiche che hanno assorbito nel processo produttivo (sbiancanti, coloranti, fissanti, impermeabilizzanti). È stato calcolato che un carico di 5 kg di tessuti arriva a rilasciare fino a 6 milioni di frammenti di fibre che finiscono inevitabilmente nei fiumi, nei laghi o in mare e ingeriti da organismi marini oppure sui campi.

LA CAMPAGNA #STOPMICROFIBRE, lanciata dell’associazione Marevivo, punta a informare e sensibilizzare su un problema ancora poco noto al grande pubblico, ma su cui esistono già ricerche approfondite. Se ne parlerà durante una sessione della conferenza internazionale microMED in programma a Capri dal 15 al 18 settembre (vedi programma qui sotto), organizzata, tra gli altri, dall’Istituto per i polimeri compositi e biomateriali (Ipcb) del Cnr di Pozzuoli (Napoli) che ha compiuto analisi specifiche su cosa accade ai nostri indumenti nel cestello di una lavatrice.

«AD OGNI LAVAGGIO IN LAVATRICE abbiamo verificato un rilascio di microfibre, indipendentemente dalla composizione del tessuto, non c’è differenza tra nylon, poliestere o fibre acriliche – spiega Maria Cristina Cocca, ricercatrice dell’Ipcb – la quantità varia in funzione del detersivo, quello in polvere produce il triplo delle microfibre rispetto a quello liquido, e in funzione delle caratteristiche tessili, cioè della struttura delle fibre, se sono corte oppure lunghe, e di come sono intrecciate: più le fibre sono lunghe e ritorte, più il filato è compatto, minore è la quantità di microfibre rilasciate. Inoltre abbiamo sperimentato che l’uso dell’ammorbidente può ridurre del 30% il rilascio di microfibre».

#StopMicrofibre invita tutti a fare meno lavaggi, a più basse temperature, con meno detersivo, a limitare la centrifuga, ma anche a ridurre gli acquisti compulsivi di indumenti: oggi nel mondo si producono 100 miliardi di kg di prodotti tessili, 14 kg a testa, due terzi dei quali vengono buttati dopo un paio d’anni e un quarto non viene mai indossato.

«Dobbiamo metterci nell’ottica di ridurre i consumi, questo è il principale messaggio di ogni campagna ambientalista – dice la responsabile dei rapporti istituzionali di Marevivo Raffaella Giugni – ma anche di stimolare le aziende tessili a produrre tessuti più sostenibili, che rilascino meno microfibre e le aziende di elettrodomestici a riprogettare lavatrici con sistemi di filtraggio adeguati».

SE DOVEROSA È LA SENSIBILIZZAZIONE DEI SINGOLI, una mitigazione del problema va ricercata a livello industriale, da una parte con la produzione di tessuti che rilascino meno fibre, dall’altra migliorando i sistemi di depurazione delle acque, sia degli scarichi delle lavatrici sia dei depuratori delle acque reflue urbane. Nelle 30 tonnellate di fanghi reflui prodotti giornalmente da un depuratore sono state contate 3 miliardi di microplastiche, il 50% delle quali erano di origine tessile. E quelli trattenuti dai depuratori non finiscono nei mari ma sparsi sui suoli.

Sul fronte dell’innovazione, l’Ipcb ha messo a punto degli strati protettivi da stendere sui tessuti a base di pectina ricavata da scarti alimentari e di polimeri biodegradabili. «In entrambi i casi abbiamo verificato una riduzione delle emissioni di microfibre del 90% nel caso della pectina e dell’80% nel caso dei biopolimeri, risultati incoraggianti – dice Cocca – anche perché si tratta di lavorazioni non particolarmente complesse o costose. Siamo ancora in fase di sperimentazione, non esistono in commercio tessuti con queste caratteristiche, ma c’è un’azienda tedesca ormai pronta alla fase di produzione». E l’Accademia della moda e del costume di Roma ha organizzato per il prossimo anno il primo master in Fabrics innovation design per formare esperti di tessuti che mettano a punto filati e fibre meno impattanti sull’ambiente.

QUANTO ALLE LAVATRICI, TEST EFFETTUATI con filtri a cartuccia esterni brevettati da un’azienda slovena hanno dimostrato di poter trattenere il 70% in più delle microfibre. «Abbiamo contattato diversi produttori di lavatrici, italiani e non, per sensibilizzarli al problema – dice Giugni di Marevivo – ma nessuno ancora ha mosso passi chiari in questa direzione. Ci rendiamo conto che la questione è complessa, è necessario ri-progettare le lavatrici per ottenere risultati significativi. Sono convinta che presto le aziende dovranno affrontare il problema, appena crescerà la consapevolezza dei cittadini».

E la consapevolezza può crescere anche attraverso un’etichettatura adeguata degli abiti, che metta in allerta il consumatore e spieghi che ad ogni lavaggio quel capo rilascia una certa quantità di fibre che finiscono in mare. «L’etichetta dovrebbe essere più chiara ed esaustiva: oltre a specificare con più chiarezza la composizione dei tessuti, dovrebbe indicare quale tipo di lavaggio è più adatto, invitare a ridurre il numero dei lavaggi e indicare l’impatto ambientale del prodotto, così come si è iniziato a fare nello stato di New York – dice Giovanni Schneider, produttore di fibre naturali, che ha aderito alla campagna #StopMicrofibre. «Stiamo cercando di creare un pool di aziende che inizi a farlo. Non sarà facile: le associazioni di categoria ancora non hanno preso coscienza dei problemi di inquinamento creati sia nella fase di produzione dei tessuti, sia nel lavaggio. Vedo più che altro green-washing in giro».

PREDILIGERE ABITI IN FIBRE NATURALI che si degradano molto più velocemente di quelle sintetiche può aiutare, ma non può essere la soluzione. Anche cotone, lino o lana rilasciano microfibre che «hanno comunque un impatto sull’ambiente marino – spiega Cocca – se vengono ingerite dai pesci o dai molluschi possono provocare un danno meccanico, non fa differenza che siano naturali o sintetiche. Inoltre, anche le fibre naturali sono state colorate e hanno subito trattamenti chimici di finissaggio. Diverso sarebbe se le fibre naturali non fossero trattate. Ma è pensabile tornare a vestirci tutti quanti con fibre naturali non trattate?»