«Le “relazioni razziali” richiedono un approccio olistico, un riesame di tutta la società, del sistemi di valori e della struttura politica ed economica. Le “relazioni razziali” hanno a che con il continuum tra esistenza e politica: l’esperienza e il potere di cambiarla». Così ha scritto a proposito del lavoro dell’Institute of Race Relations (Irr) di Londra, Ambalavaner Sivanandan, intellettuale della diaspora, originario di Ceylon, romanziere e militante, direttore dell’Istituto dal 1972.

La sua attività politico militante e il lavoro di ricerca dell’Istituto sono state al centro dell’intervista realizzata in occasione della 10a Conferenza annuale di Historical Materialism che si è tenuta recentemente a Londra. Netto è il punto di partenza di Sivanandan: quando si ha a che fare con la «razza», il metodo di ricerca, l’elaborazione teorica sono strettamente legate alle lotte, le mobilitazioni contro il razzismo. Da questo nesso prende dunque il via la conversazione.

Quali sono state a partire dagli anni Settanta le linee guida dell’Istituto?

L’istituto era stato pensato come un think-tank indipendente, che aveva però finito per sostenere, con le sue ricerche, il razzismo dei governi, in particolare sull’immigrazione. Questo tipo di ricerca definiva un «problema» di razzialismo non di razzismo, cioè di pregiudizi personali e non di ingiustizia sociale strutturata. Ed era inevitabilmente politicamente orientata dalle preoccupazioni del governo. Non guardava alla relazione tra le razze ma ai rapporti di potere in campo. Noi volevamo però tradurre l’esperienza dei soggetti in azione, parlare dei bisogni per superare l’oppressione e l’ingiustizia.

Abbiamo imparato che il rapporto tra teoria e pratica, tra esperienza e il suo significato è fondamentale per comprendere le azioni, le scelte dei singoli e dei gruppi sociali o razziali. Un rapporto che consideri insieme il generale (stato, società, economia) e il particolare (l’individuo, la comunità), muovendosi tra i due livelli. Questo è particolarmente vero nella lotta contro il razzismo perché combina esistenziale e politico, oppressione e sfruttamento, razza e classe.

Abbiamo così preso le distanze da una cultura politica dominante dentro l’Istituto, sfidando l’ortodossia accademica sulla «razza» e così svelando il continuum esistente tra colonialismo e immigrazione: tutti noi eravamo coloni e non immigrati, cittadini non stranieri. Il mio aforisma di allora e oggi recita così: «noi siamo qui perché voi eravate lì».

Allo stesso modo abbiamo contestato l’ortodossia marxista secondo cui la lotta sul terreno della razza deve essere sussunta, riassorbita dalla lotta di classe, perché vinta la lotta di classe il razzismo scompare. Il razzismo ha però una dinamica propria. Tenere insieme bianco e nero è un obiettivo, non la realtà di partenza. Lavoratori bianchi e neri devono arrivare all’appuntamento comune con i propri percorsi autonomi. Negli ultimi quaranta anni abbiamo combattuto le versioni ufficiali e accademiche dell’etnicismo (che sostituisce la lotta al razzismo con la lotta per la cultura), i corsi di sensibilizzazione al razzismo (che ne hanno fatto una malattia del bianco), l’identity policy (che ha creato gerarchie di oppressione), la discriminazione positiva (che era come romperci le gambe per farci dare delle stampelle), la definizione di Macpherson del razzismo istituzionale (che discenderebbe, insieme al razzismo popolare, dal razzismo di stato), l’idea che il razzismo era un aspetto del fascismo (noi crediamo che sia terreno fertile per il fascismo).

Muoversi tra il generale e il particolare, tra l’autorità dell’esperienza e l’interesse della parte lesa: queste le componenti chiave del metodo dell’Irr. Come ciò si è tradotto in una pratica?

Il comitato editoriale dell’Istituto comprendeva persone coinvolte nelle lotte di liberazione in Palestina, Africa, nelle Americhe (tra cui Edward Said). Altri erano coinvolti nella lotta del radicalismo nero: tutti eravamo accademici non tradizionali. In un certo senso l’Irr è una piramide rovesciata. La sua forza è nei collegamenti con le lotte, cosa che ci permette di avere un quadro di ciò che accade in tutto il paese.

La mia riflessione è l’esito delle discussioni di tutti i giorni con i miei colleghi. L’Irr, dopo il 1972, ha rotto le gerarchie interne e la divisioni del lavoro. Durante una di queste discussione qualche anno fa con Liz Fekete – responsabile per l’Europa – è nato il concetto di xenorazzismo: un modo di concettualizzare la discriminazione nei confronti degli stranieri non codificati per il colore.

Hai detto di essere critico rispetto all’astrazioni teorica, al positivismo e al dogmatismo. Come descriveresti il tuo metodo?

Sono ciò che gli accademici aborriscono: empirista ed eclettico. Ma se c’è un metodo nella mia follia è in primo luogo quello di contestualizzare un problema. In secondo luogo, metto costantemente in discussione il mio pensiero a partire dai «fatti». In terzo luogo non ho il desiderio di confronto con un’altra teoria ma voglio rispondere a un problema. Per esempio alcuni anni fa con The Hokum of New Times ho attaccato il «New Times Marxism» perché l’estremo atteggiamento «culturalista» che proponeva metteva in pericolo la lotta contro il razzismo e il fascismo. Oggi il problema potrebbe essere: «cosa facciamo con i teorici dell’estremismo cumulativo che vedono il problema non nel fascismo ma in ogni estremismo, compreso quello di sinistra?».

Ho ricordato che la sfida alle ortodossie è ciò che distingue l’Irr. Il nostro pensiero è flessibile perché affrontiamo problemi reali. Il razzismo cambia continuamente forma, contorni, impatto, in base ai cambiamenti politici ed economici. Siamo sempre attenti ai nuovi avatar del razzismo. Ma non l’abbiamo mai «essenzializzato», mai considerato fuori del contesto più ampio.

Quali esperienze hanno ispirato la tue pratica teorica?

In primo luogo, l’esperienza della povertà. Mio nonno paterno era mezzadro nel Tamil a nord di Ceylon e su quella terra crescevano solo bambini. Mio padre a 15 anni ha cominciato a lavorare in un ufficio postale – per sostenere fratelli e sorelle – ed è andato di città in città. Ho sempre trascorso le vacanze nel villaggio, quindi sono cresciuto con la doppia coscienza del villaggio e della città, dei contadini e della classe operaia. Dopo l’università ho lavorato nella produzione del tè, insegnando ai figli dei lavoratori delle piantagioni, schiavi a contratto. I miei genitori erano indù e mio padre citava testi come le Upanishad e la Bhagavad Gita, Tagore e Gandhi. Era un autodidatta. Una volta diventato capo delle poste si è ricordato di lottare per i lavoratori postali. Mia madre era l’anima della semplicità – emozionale e diretta; è lei che mi ha trasmesso la passione per il mondo. La cosa di mio padre che ricordo più chiaramente è il modo in cui mi riprendeva quando facevo qualcosa. Non diceva che era giusto o sbagliato, ma che era brutto o bello. Ciò mi ha dato un’estetica morale di cui ho trovato risonanza negli scritti di John Keats – «la santità degli affetti del cuore e la verità dell’immaginazione» – e più tardi nella immaginazione sociologica di C. Wright Mills .

Ho frequentato una scuola pubblica cattolica molto bigotta. È stato poi con gli studi in Economia e Scienza politica all’Università di Ceylon sotto l’influenza di brillanti insegnanti (ispirati da pensatori socialisti alla London School of Economics come Harold Laski e coinvolti nella lotta per l’Indipendenza ) che le esperienze personali mi hanno aiutato a interpretare il colonialismo (Ceylon è stata occupata da portoghesi, olandesi e britannici per oltre 400 anni). Poi l’incontro con Marx e il materialismo dialettico mi ha dato gli strumenti per interpretare la realtà. Ho trovato un modo per analizzare la società, per comprendere le contraddizioni sociali, per capire come il conflitto in sé sia il motore della propria vita e la forza rigenerante della società. È stato come un miracolo. Come ha scritto Dylan Thomas «l’’istante d’un miracolo sia un lampo senza fine».

Citi spesso dei poeti. Perché?

Perché i poeti spiegano l’esperienza in modo vivido. Ad esempio, la mia riflessione sull’esperienza deriva da T. S Eliot, dalla sua preoccupazione: «Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?». Anche scrittori e romanzieri mi hanno molto influenzato: Fanon con la sua ricerca dell’universale della condizione umana; Amilcar Cabral e la cultura non come una cosa in sé ma come forza di combustione della rivoluzione; Nyerere sul restituire la mia formazione alle persone che me l’hanno data; Richard Wright sulla violenza dei poveri in Paura; Camus sulla distinzione tra il personale e il politico quando il suo ex amico tedesco di sinistra si unì ai nazisti: «voglio distruggere il tuo potere senza mutilare la tua anima». E così le Upanishad e l’esistenzialismo: colui che vede se stesso negli altri e gli altri in se stesso non è più solo.

Un commento su ciò che hai chiamato «lotta al pensiero»…

La lotta antirazzista per come l’abbiamo conosciuta è finita. Oggi, nel quadro più ampio della lotta contro un crescente autoritarismo di stato e il fascismo che l’accompagna, dobbiamo combattere xenorazzismo e razzismo antislamico: i nuovi razzismi vomitati dalla globalizzazione e dalla guerra al terrorismo. Dobbiamo combattere l’idea che esiste un «capitalismo buono», che stato e mercato ci daranno una società buona. Finché non combattiamo la cultura politica del neoliberismo e cambiamo i termini del dibattito, non potremmo intraprendere una vera lotta da portare avanti insieme.

 

Traduzione di Anna Curcio