Lavapiés è un quartiere nel centro di Madrid, eppure somiglia a Dakar. E’ l’enclave nera di una città bianca, la contrada dei migranti subsahriani, il ghetto dei manteros. Manteros, li additano gli spagnoli, da manta, la tela leggera su cui gli africani stendono le loro merci: scarpe, borse, occhiali, magliette dei numeri uno del football.

Ma Lavapiés è anche uno dei luoghi più cool della capitale spagnola: qui si trova la Madrid “alternativa”, il miglior jazz e il cinema d’essai, i locali alla moda gestiti dagli immigrati. Nel quartiere sono sorti negozietti di prossimità, bazar per le varie comunità con le spezie tradizionali, l’olio di karitè, i prodotti per il corpo made in Africa. Le modelle sui barattoli di shampoo sono bellissime sub-sahariane dai capelli lisci, fan delle acconciature europee.

Lavapiés a colpo d’occhio, la prima impressione di un mondo meticcio. La storia di mondi incompatibili, tanto vicini quanto lontani. Quando cammini per le sue stradine assolate ti chiedi come possano coesistere l’uno accanto all’altro, l’etnico addomesticato dei ristoranti indiani, pakistani, senegalesi – l’immigrazione che piace all’Europa – e la vita aspra di chi guadagna qualche euro con la vendita abusiva di un paio di scarpe. Nei ristoranti senegalesi mangiano i trentenni spagnoli in cerca dell’etnico, attratti dal sapore speziato d’un immaginario lontano.

I migranti dell’Africa nera formano capannelli vicino ai locali, chiacchierano sotto il sole, ridono, il tono della voce sempre alto. Sono troppo poveri per mettere piede nelle trattorie dei loro connazionali che ce l’hanno fatta.

Allora se ne stanno seduti vicino alla fermata del metro o nei pressi di un ufficio Moneygram. Non hanno orari di lavoro da rispettare, vite frenetiche da rincorrere. La maggioranza sono uomini, giovani, una maglietta, i rasta e gli auricolari nelle orecchie. Se ti fermi e incroci i loro sguardi esordiranno senza pudore: – Hey, hola guapa.  I coloratissimi vestiti tradizionali sono appannaggio delle persone di mezz’età, i giovani li mixano con i capi occidentali.

Secondo Mamadou Cheikh Agne, presidente dell’associazione A.I.S.E (Asociacion de los Inmigrantes Senegaleses en España), l’80% dei senegalesi sono manteros. “La manta è il loro pane – dice con una venatura di tristezza nella voce. Se non si creano possibilitá reali d’inserimento lavorativo, le persecuzioni della polizia e il sequestro della merce sono completamente inutili. Per la prima volta lo scorso anno il numero di senegalesi residenti a Madrid è sceso. La crisi ha colpito duro – prosegue – e per loro non è mai finita”.

Nelle sue parole intravedi l’altro Lavapiés, quello sotterraneo, la zona di frontiera dove la parola legalità si sgretola come le pareti dei vecchi edifici.

Fra i sub-sahariani difficile dire quanti sono i sans papier; pochi, troppo pochi, quelli con un lavoro. Molti sono ex-operai, manovalanza del settore della costruzione, i primi ad essere espulsi quando la crisi economica ha spazzato via il boom del mattone, le ipoteche hanno smesso di essere pagate e il mercato immobiliare è crollato. Giovani fra i venticinque e i trentacinque anni scivolati nella clandestinità, il numero di manteros è tornato a crescere. Le contraffazioni la fanno da padrone, si vendono alla svelta e fanno guadagnare di più.

Lavapiés é il suo coacervo di contraddizioni. E’ cool e meticcia, è concerti afro, multiculturalità, e controcultura; ed è una piazza di spaccio nel centro di Madrid. Le vetture della polizia pattugliano costantemente la zona, passano lentamente fra le viuzze ripide. I manteros non sono quasi mai i loro obiettivi. I raid anti-manta si svolgono altrove, nei punti nevralgici della città, vicino alla stazione d’Atocha o nei pressi della Puerta del Sol.

A Lavapiés gli migranti africani ci vivono, li vedi rientrare la sera con l’enorme fagotto bianco sulle spalle.

Abdoulaye è senegalese, 32 anni, vive in una specie di seminterrato. Quando apre il portone, davanti a me si spalanca un patio enorme e poi un corridoio dove tutto sa di stantio, l’aria è opprimente. Camminiamo veloci fino alla porta di casa. Mi siedo sul piccolo sofà, mi offre caffè touba. Di fianco a me una chitarra a cui mancano due corde, improvvisa qualcosa, canta in wolof e ride. Dice di essere felice. Sdraiato sul letto a castello, scostato meno di mezzo metro dal divano, Mamadou guarda un film western alla televisione. In spagnolo, niente parabola. La cucina, la camera, il salone, le pareti divisorie fra le stanze bisogna immaginarsele, lo squallore è reale.

Lí dentro ci vivono in tre, settanta euro ciascuno per un seminterrato con una sola finestra; nel quartiere gli “affitti europei” non scendono al di sotto dei trecento euro per una singola. In questo rione, troppo vicino alla Puerta del Sol per essere dimenticato, l’apartheid è incisa negli spazi.

Nei palazzi recentemente ristrutturati stanno gli spagnoli, quelli dalle pareti scrostate, le crepe per l’umidità e i graffiti sui muri sono degli immigrati. Ogni settimana per mettere insieme il pranzo con la cena Mamadou spende venti euro. Mangia insieme ai suoi coinquilini, Chebu yen o Chebu yapp, una sorta di paella piccante con carne o pesce.

Quando affonda il cucchiaio nel grande piatto al centro del tavolo pensa alla sua Africa, vorrebbe tornare, abbandonare il miraggio del paradiso europeo, tanto reale e tanto fittizio come le clip degli spot pubblicitari.