All’inizio di About Ray, recentemente in anteprima al festival di Toronto, Ramona (Elle Fanning), adolescente di New York, ascolta un medico che elenca gli effetti del trattamento ormonale che sta per iniziare. La ragazza ha deciso di cambiare sesso e di allineare il proprio corpo col maschio con cui si identifica internamente: Ray. Nel film diretto dalla regista inglese Gaby Dellal e scritto da Nicole Beckwith (già autrice di Stockholm Pennsylvania, un’altra bella storia di dislocamento adolescenziale) la sua transizione è trattata anche con una certa dose di umorismo legato ai personaggi della madre (Naomi Watts) e della nonna (Sarandon) della ragazza/o. Quest’ultima è una femminista ante litteram, una donna liberata e lesbica che da anni vive con la compagna ma che pure davanti all’outing transgender della nipote non riesce a contenere un sospiro di «ma non poteva semplicemente fare la lesbica?» C’è sempre posto per un prossimo patema generazionale.

Un sdrammatizzazione di tono sicuramente più leggero del registro un po’ reverenziale di Danish Girl, altro film passato a Toronto dopo il debutto a Venezia, che pure si occupa, in questa stagione hollywoodiana, di una transizione di gender, in questo caso quella storica di Einar Wegener (Eddie Redmayne) in Lily Elbe. Diretto da Tom Hooper (e prodotto da Neil Labute) Danish Girl racconta la storia del paesaggista danese Einar Magnus Andrea Wegener che negli anni ‘20 intraprese l’allora impensabile tragitto dal genere maschile di nascita a quello femminile. L’intervento sperimentale a cui si sottopose nel 1931 per assumere anche fisiologicamente la propria identità di Lily, fu una delle prime documentate operazioni di cambio di sesso.

Il film di Hooper promette di proiettare Redmayne verso nuove glorie un anno appena dopo l’Oscar vinto l’anno scorso per Theory of Everything. About Ray probabilmente è destinato a percorsi più «indie», ma i due film sono sintomatici di una tematica che affiora sempre più insistentemente. Dopo anni di emarginazione fra gli emarginati, si intravede per i transgender se non una «normalizzazione» mediatica, una presenza sempre più quotidiana nel pubblico discorso e forse la fine della rimozione di cui sono finora stati oggetto. Solo la scorsa settimana una scuola elementare di San Francisco ha aggiunto ai bagni per bambini e bambine anche servizi per quelli (una decina nella scuola) che non si identificano precisamente con nessuno dei due sessi. Una prigione californiana ha annunciato che per la prima volta i detenuti transgender verranno trasferiti nei reparti femminili. Dopo anni di patemi su come integrare soldati gay e se permettere alle donne l’accesso in prima linea, la US Army sembra pronta ad annunciare relativamente velocemente l’apertura ai transgeder nei ranghi delle forze armate. Dopo anni di silenzio c’è insomma movimento in legislature e amministrazioni pubbliche per ovviare a discriminazioni, violenze e bullismi che sono tuttora la cifra dell’esperienza transgender in virtù di una incollocabilità identitaria percepita come minaccia all’ordine delle categorie costituite più ancora dell’omosessualità; un essere altro che scatena le fobie più violente.

Era il tema di un bel film del 1999: Boys Don’t Cry di Kimberley Pierce, la vera storia di Brandon Teen (interpretato da Hillary Swank), il ragazzo trans ammazzato di botte dagli amici quando scoprono il suo sesso biologico originario, sommo sopruso alla mascolinità che aveva osato condividere con loro. La metabolizzazione più profonda, «culturale», di una tematica come quella trans passa allora, come spesso accade per una nuova visibilità in cinema e fiction. Non che siano mancati in passato esempi anche egregi, da Crying Game al Tutto su Mia Madre di Alomodóvar a Transamerica con la ex «casalinga disperata» Felicity Huffman nei panni di una donna trans che tenta di intergrarsi con il suo nuovo sesso. Ora è quasi il caso di parlare di sottogenere. Uno dei film migliori visti allo scorso Sundance è stato Tangerine, una novella «pasoliniana» girata con l’iphone e interpretata da attori non professionisti trans sulle strade di East Hollywood su cui si prostituiscono. Ora però qualcosa sembra essere cambiato, diffondendo per prima volta la consapevolezza di un pianeta transgender oltre le fila ristrette di cinefili e intellettuali.

Certo la nuova visibilità è dovuta non poco a casi eclatanti come quello di Caytlin Jenner a cui per lunghe settimane è stata dedicata una copertura gossip nazional-popolare dai rotocalchi americani. Alle apparizioni giornaliere dell ex decatleta olimpico e star dei reality in versione glamour-star sulle pagine patinate e nei telegiornali nazionali, fa eco la visibilità «mondana» sempre maggiore di modelle transgender, da Lea T (figlia di Tonihno Cerezo a Hari Nef), prima modella transgender a firmare un contratto con la Img Models. Nel cinema le problematiche identitarie del sesso sono assurte a veicolo drammatico du jour e non solo nel cinema Americano come dimostra quest’anno La Vergine Giurata, l’esordio di Laura Bispuri.

Ma alla fine è attraverso il piccolo schermo che gli USA elaborano grandi temi sociali: è quando le minoranze appaiono nello schermo casalingo, in sitcom e talk show che il progresso si aquisisce sociologicamente. È accaduto coi neri, gli ispanici e i gay ed oggi è nella fiction del cable che sono apparsi personaggi trans più «tridimensionali», in grado di umanizzare nei salotti del paese lo sconosciuto oltre lo stereotipo «trasgressivo».
Due personaggi di forte impatto – e con la la distinzione di essere interpretati da attori effettivamente transessuali – sono quelli di Sophia Burset, interpretata da Laverne Cox in Orange Is The New Black la soap carceraria di Jenji Kohan su Netlfix. Burset è una detenuta trans che lotta per aver sovvenzionati dalla mutual gli ormoni necessari a completare la transizione e la Cox è diventata talmente popolare da essere diventata la prima persona trans ad apparire sulla copertina di Time.

Sempre di Netflix è Sense8 la serie di Andy e Lana Wachowski, gli autori di Matrix. Si tratta di un serial che ci sentiremmo di defininre «fanta gender», la storia di un gruppo di otto persone in un prossimo futuro, collegate da capacità extrasensoriali e perseguite da un oscura cabala di scienziati. Una serie in sostanza su diversità, discriminazione e solidarietà e non a caso diversi personaggi sono bisessuali o gay e una protagonista pricipale, Nomi, è una transgeder lesbica interpretata dalla attrice transessuale Jamie Clayton, una scelta anche «politica» da parte di Lana Wachowsky (già Larry) che è la prima grande regista ad aver cambiato sesso (nel 2008). La sua transizione e allo stesso tempo la pubblica solidarietà del fratello e collaboratore Andy hanno di per sé assunto una dimensione politica a Hollywood e non è un caso che proprio alla Wachowsky si sia rivolto Eddie Redmayne mentre si preparava al suo personaggio di Danish Girl, raccontando a Venezia di essere stato indirizzato da lei ad una vera coppia (Jan Morris) sposata rimasta assieme anche dopo la transizione in donna del marito. L’accettazione e l’inclusione dei transgender attraverso l’amore è il tema di fondo del film di Hooper e di molta recente produzione. Un cambiamento certo rispetto al ghetto della trasgressioene sessuale cui sono stati in gran parte relegati fino ad oggi i trans – nella realtà come nelle rappresentazioni drammatiche.

In America c’è il senso concreto che dopo la conquista dei matrimoni gay, la parità dei transgender promette di essere la prossima battaglia dei diritti civili. In questo quadro è chiaro anche il ruolo anzitutto educativo che possono svolgere le rappresentazioni dei personaggi trans. Eddie Redmayne ha dichiarato che interpretare Danish Girl è stata una «colossale istruzione» e puntualmente a Venzia è stato interrogato sul suo «personaggio gay», trovandosi a spiegare come «trasgender sia questione di sesso non orientamento sessuale». La causa transgender è parallela alle battaglie della comunità gay con cui è alleata nell’ombrello LGBT (lesbian, gay, bisexual and transgender) ma è allo stesso tempo fondamentalmente distinta.

Transparent – prodotta da Amazon Studios – è stata una delle prime serie ad avere come protagonista una transgender lontana dagli usuali stereotipi. Nella fiction autobiografica creata da Jill Soloway (Six Feet Under) Jeffrey Tambor è un padre di famiglia divorziato e settantenne che decide di assumere infine e rivelare ai figli cresciuti la propria identità di donna. Il personaggio basato sul vero padre della Solloway, è stato meticolosamente ricercato dal caratterista di lungo corso con la partecipazione attiva della comunità trans. Tambor ha interrogato numerosi trans sulle proprie esperienze e frequentato locali vestito da donna assieme all’autrice Soloway per cui una rappresentazione accurata dell’ambiente e dei personaggi era essenziale. «Ad esempio abbiamo preso molto sul serio la differenza fra travesiti e trangender che rimane oggetto di gran equivoco» ha dichiarato la regista. «Il fatto che ora molta gente la realizzi per la prima volta per me è un entusiasmante effetto collaterale della serie».

Come sottolineano sia Redmayne che Tambor il primo passo necessario è una fondamentale educazione alla terminologia – cruciale in una tematica che si gioca tutta sui contorni dell’identità (i post-pronomi nelle comunità giovani LGBT). L’opposto del movimento transfobico italiano interamente predicato sui malapropismi lessicali come «teoria gender».

I family day contro la famiglia post-nucleare e i proclami forzanovisti contro la buona scuola sono tenativi di trascinare l’argomento su terreno «ideologico» per promuovere un’agenda reazionaria – una strategia analoga a quella dei teocon americani su clima e l’insegnamento dell’evoluzione.

Un oscurantismo bieco, sintomatico dell’attuale rigurgito xenofobico che perdipiù impedisce ogni dibattito razionale – per cui pure ci sarebbe ampio spazio – su nuovi ruoli sessuali, psicologici e politici. Una nota su questi temi che ci rendono riconoscenti per «l’avanguardia hollywoodiana».