Prima che il festival iniziasse era già un evento: otto ore di film in una sola proiezione («spezzata» da un’ora di intervallo) in concorso, questa sì una scelta diversa, che in altri festival per come vanno le cose appare oggi impossibile – lo abbiamo visto lo scorso anno a Cannes con il magnifico Le mille e una notte di Miguel Gomes, mentre a Venezia Lav Diaz è stato proiettato diverse volte ma mai in gara.

La «durata» è una caratteristica centrale nella poetica di Lavrente Indico Diaz, lui la definisce una scelta politica contro le logiche del mercato. Come il suo bianco e nero pittorico e violento e i suoi piani sontuosi, ricerca sul tempo cinematografico ma soprattutto costruzione di un mondo. Si ha l’impressione entrando nella sala di varcare una soglia, di essere catturati nel respiro profondo di un accadimento unico, un movimento forse diseguale – e anche questo è la sua forza – che alterna epifanie e qualche pausa di stanchezza, e che appunto spalanca una diversa realtà.

«Il cinema crea un altro mondo, non soltanto un’illusione» dice il giornalista al pubblico che si prepara a guardare le prime visioni Lumiere. È l’obiettivo di Lav Diaz, dichiarato nella scelta di storie e di personaggi che rivendicano la formazione di un immaginario alla «prima persona» cambiando il segno alle molte influenze mentali, politiche e economiche a cui è stato sottoposto il suo Paese. E la sfida è riscrivere la Storia e indagarne gli enigmi secondo linee critiche che sfuggono alla interpretazione dominante.

Siamo nel 1896, nelle Filippine schiacciate dal colonialismo spagnolo che ha come alleata la Chiesa e le sue conversioni capillari e forzate che garantiscono ordine e repressione.. La maggior parte dei filippini è misera, ammalata, analfabeta, vittima dell’incanto di miti e leggende che sembrano renderli incapaci di reagire. Ma la rivoluzione è già finita, i suoi ispiratori sono stati uccisi o sconfitti, si sono massacrati tra di loro lasciando ancora una volta il Paese nel suo dolore.

È questa rivoluzione che racconta A Lullaby to the Sorrowful Mystery, nell’anno tra il 1896 e il 1897, quando uno dei sui maggiori teorici José Rizal, un medico è stato ucciso facendo esplodere la rabbia dei filippini. E il suo ispiratore, Andres Bonifacio, guida del movimento rivoluzionario Katipunan, ucciso da Emilio Alguireda, a capo di un altro gruppo, che proclamerà un governo rivoluzionario mai riconosciuto da Spagna e America, diventando dopo la guerra ispanico-americana (nella quale si schiera accando agli Stati uniti) il primo presidente delle Filippine Andres Bonifacio nel film è già morto.

Alla ricerca del suo corpo vaga nella giungla la moglie, Gregoria de Jesus con l’illusione di ritrovarlo ancora in vita, nonostante sia consapevole che è impossibile. Alguireda lo ha portato via, l’ha violentata, ha ucciso molti degli altri. Perché? «Hanno seppellito da soli la loro rivoluzione» ghigna il comandante spagnolo dopo il massacro di una città nella quale è riuscito a entrare grazie all’aiuto della sua amante filippina.

Spie, servi, la malattia del potere che non risparmia nessuno. Come si fa la rivoluzione? La sua sconfitta sembra essere dentro di sé, quasi una malattia originaria, ma questo basta a rinunciare a ogni utopia?
La Storia e i suoi interrogativi prendono forma per astrazione, non è un film in costume questo e tantomeno di ricostruzione anche se i protagonisti sono figure reali del passato.

È la trasmissione «lineare» univoca, il pensiero e la lettura ufficiali che Diaz mette in discussione aprendo la Storia al presente per cercarne la lezione nei conflitti e nelle zone ambigue. Per capire come la rivoluzione ha perduto le sue rivendicazioni originarie risucchiata dagli interessi di coloro che voleva combattere. Ieri come oggi.

Sulle note tristi di una ballata, e di una lettera d’amore alla donna amata, Pepita, le parole dell’inno rivoluzionario e l’immagine delle Filippine Diaz (anche autore della sceneggiatura) punteggia la storia di altre presenze, figure narrative che incarnano uno stato d’animo una modalità dell’agire umano fuori dal tempo.
Nella foresta dove Gregoria e gli altri vagano perduti prendono vita, come su un palcoscenico, gli accadimenti di quei mesi. Voci dei ricordi dolorosi che sussurrano nel vento, fantasmi, miti, leggende, l’invincibile Bernardo Carpio che li riscatterà e quella figura misteriosa che appare nella notte incantesimo di un uomo metà animale.Tre donne ognuna coi suoi ricordi e i suoi terribili dolori.

Una ha tradito la sua città facendola massacrare, l’altra ha perduto i suoi figli, l’altra ancora, Gregoria, cerca disperatamente di cancellare nel dolore per la perdita dell’uomo amato quello di una sconfitta, dei filippini che uccidono gli altri filippini, di una lotta per il comando e gli interessi personali che ha messo da parte quella del popolo, Chi sono gli oppressi e che gli oppressori?

Sono i filippini il centro di questo universo, è a loro e di loro che parla il film , non dei conquistatori ma dei colonizzati anche se la relazione è indissolubile ed questa strategia che lo interessa, come funziona il controllo, come viene reso sentimento comune, debolezza, incapacità di reagire Ma Lav Diaz non giudica né da lezioni agli altri: la sua sfida è illuminare i punti deboli, svelarne la natura universale.

Oppressi e oppressori. «Le classi non esistono in sé e non misurano l’intelligenza eppure noi siamo gli oppressi costretti così al silenzio» dice uno dei personaggi nella foresta. Analisi spietata del colonialismo fino al presente, A Lullaby to the Sorrowful Mystery è quello più vicino alla serialità televisiva in forma di oralità epica e popolare, procede per accumulo, somiglia a telenovela ma di segno opposto, destabilizzante, in paesaggi fordiani e con un senso del cinema assoluto.

La storia di quella rivoluzione è la storia di altre rivoluzioni e di altri fallimenti, di un colonialismo che è riuscito a rinnovare nei secoli le sue modalità di esistere. Di un postcoloniale nel quale si è perduta la priorità di una liberazione senza compromesso. Di un immaginario sincretico che cerca la sua affermazione.Serve a qualcosa la vendetta? A chi viene utile che i rivoluzionari si ammazzino tra di loro? Strafatti di oppio che unisce i traditori agli spagnoli, malati di cinismo e di disillusione, lontani dalla realtà e già nel mito che serve solo a rendere più forte la promessa di un’eterna attesa.

Nell’epopea di Lav Diaz non ci sono né santi né supereroi. C’è una dimensione umanissima e fragile che cerca il proprio spazio, un risveglio non dominato da un qualche potere, ma conquistato con una propria visione del mondo. Il potere del cinema.