Tornare a scrivere una biografia su Adolf Hitler, senza indulgere in considerazioni che non siano quelle che riguardano esclusivamente la sua vita, non è facile. Dinanzi al grande numero di opere che in questi ultimi settanta e più anni è stato letteralmente riversato sul mercato editoriale, il rischio non solo della ripetitività ma di una sorta di banalizzazione dell’oggetto di ricerca, ricondotto a categorie tanto compiaciute quanto vuote, tali poiché capaci di soddisfare luoghi comuni ma non certo di interpretare un percorso di vita con le sue tragiche conseguenze, è immediatamente dietro l’angolo.

COSI COME, tentazione non meno accentuata soprattutto sul piano degli studi di taglio più rigorosamente scientifico ed accademico, può accadere che la difficile penetrabilità di quella che rimane comunque una figura atipica possa essere sciolta dentro un mero affresco storico, politico e culturale dell’epoca in cui operò. Aspetto, quest’ultimo, senz’altro necessario in alcuni passaggi interpretativi ma, laddove ecceduto, destinato anche ad evitare di affrontare i nodi di un’esistenza sospesa tra banale irrilevanza e sorprendente eccezionalità. Non si possono capire le figure demiurgiche se non se ne interpreta il periodo storico di cui furono espressione.

Non di meno, l’equilibrio di analisi e scrittura dovrebbe indurre a non risolvere le soggettività dentro i soli indirizzi collettivi prevalenti in un dato momento: di essi ne sono anche manifestazione ed effetto ma, al medesimo tempo, la loro rilevanza deriva anche dal saperne indirizzare sviluppi e risultati. In altre parole, proprio perché destinatario di un’attenzione altrimenti scarsamente offerta ad altri personaggi della nostra contemporaneità, Hitler rischia di essere una figura scarsamente biografabile, assoggettata ad una serie di polarità di giudizio, a partire da quello di ordine morale, che ne annullano l’effettiva comprensibilità storica. Inoltre, per il lettore di grana grossa, una parte dell’editoria offre testi basati sul sensazionalismo, vellicando il bisogno non di interpretare ma di giudicare in base ad uno schema mentale prefissato.

Quest’ultimo tipo di approccio, ancora assai diffuso poiché ripreso dai mezzi di comunicazione di massa, non è solo semplificatorio e monocausale ma si presta a manipolazioni di ogni genere e tipo: Hitler criminale poiché deviante sessuale; Hitler cripto-ebreo; Hitler alternativamente demone o «uomo comune», animato in entrambi i casi da un feroce spirito di rivalsa; Hitler burattino integrale o burattinaio totale e così via. Nell’universo di quei pregiudizi grazie ai quali lo stesso «Führer della Germania» riuscì a costruire una parte non secondaria delle sue fortune, il continuare a leggerne i trascorsi con le lenti deformanti del giudizio monofattoriale rischia non solo di annebbiarne la comprensione dei contorni personali (la biografia storica, situata nell’età di cui fu espressione) ma anche e soprattutto il perché essi risultarono così compatibili con l’evoluzione di una società complessa e articolata qual era la Germania (poi, in immediato riflesso, l’Europa) di quegli anni.

Derisione così come sottile apologia sono entrambe partecipi della medesima logica, quella dell’uso deteriore del passato. Certo, per più aspetti rimane l’enigma, apparentemente irrisolvibile, di una vita mediocre che si trasforma in un’esistenza votata alla distruzione collettiva. Ma la domanda, al riguardo, va spostata dalla traiettoria personale del biografato alla radice di un potere che recepisce questa vocazione individuale come opportunità per rigenerare se stesso.

TRA I MIGLIORI LAVORI disponibili sul mercato rimane a tutt’oggi il rigoroso testo di Ian Kershaw, che si affianca, ed in parte ne diventa sintesi felice, alle molte opere che, soprattutto dagli anni ’60 in poi, sono state offerte ai lettori, anche e soprattutto a quelli non specialisti. Tuttavia, la disponibilità di letture più agili, ma non per questo meno rigorose, incentrate non solo sul personaggio pubblico ma anche su quel campo di apparente imperscrutabilità che è costituito dalla fisionomia della persona nel suo privato, è fondamentale per riuscire a costruire una sintesi dialettica tra individualità e tempo storico. Si muove in questa direzione Hans-Ulrich Thamer nel suo studio su Adolf Hitler. Biografia di un dittatore (Carocci, pp. 318, euro 24).

L’autore, ben noto agli studiosi, è professore emerito di storia moderna e contemporanea alla Westfälische Wilhelms-Universität di Münster. Il volume è stato editato in Germania solo tre anni fa, costituendo quindi una biografia che può avvalersi degli ultimi studi europei. La agile ma puntuale bibliografia scelta, posta a calce del testo, ce ne restituisce l’impronta. La questione del carisma è alla radice dell’insieme delle riflessioni dell’autore. Non a caso, ad un certo punto afferma che il solco della ricerca deve indagare sulla «sinergia tra circostanze critiche esterne, singolari qualità politiche e azione individuale». A ciò aggiunge, nel corso delle sue pagine, continue riflessioni su ciò che chiama il «fare del culto di sé la radice della propria proposta politica».

Thamer è sufficientemente attento ad equilibrare, con abile dosaggio espositivo, la dimensione personale a quella istituzionale, il dato biografico a quello storico, l’aspetto in soggettiva al suo riflesso pubblico. L’esistenza del dittatore è sezionata in sei capitoli che corrispondono ad altrettante fasi della Germania, dal 1889 al 1945: Impero guglielmino, Grande guerra, dopoguerra, declino della democrazia, dittatura, Secondo conflitto mondiale.

L’INTERAZIONE tra particolare e generale riesce quindi a risultare convincente per il lettore, posta anche la cautela interpretativa che lo storico mantiene costantemente: laddove non vi siano riscontri certi, tralascia di formulare ipotesi incerte. L’apparato fotografico, che si intervalla in diverse pagine al testo, aiuta a focalizzare i passaggi critici esposti da Thamer. Al fuoco della biografia c’è infatti la dinamica tra realtà e raffigurazione, ovvero «il legame tra messinscena e potere».

Per l’autore, al pari di una consolidata storiografia, il regime nazista non fu ciò che raccontò di se stesso ma, al medesimo tempo, non si può per nulla tralasciare i modi e gli stilemi che esso adottò per rendersi maggiormente credibile alla collettività attraverso l’auto-narrazione. Come a voler dire che struttura e sovrastruttura, fatti materiali e schemi mentali, eventi e rappresentazioni non sono mai del tutto scindibili tra loro, richiedendo semmai di ragionare, al medesimo tempo, seguendo due rotte tanto parallele (fattualità e simbolizzazione) quanto destinate, in qualche modo, ad influenzarsi reciprocamente soprattutto nei grandi momenti di tensione e crisi.

GRANDE PARTE DEL LIBRO è dedicata agli anni di Hitler prima della guerra, e non a caso. Poiché la costruzione di una mitografia totalitaria, indirizzata allo scontro bellico, non può non confrontarsi con i processi di rinegoziazione dei poteri, militari e civili, di cui Hitler fu artefice. Il suo radicalismo, che raccolse ampio seguito, così come anche la sua visione totalitaria, non meno seducente, costituiscono la silloge di un’epoca di stravolgimenti. L’«Hitler senza fine» di cui Thamer fa menzione in conclusione delle sue pagine, rimanda a questo sfondo a tratti potenzialmente perenne: la crisi della ragione non ci restituisce, sempre e comunque, il significato della ragione della crisi. Non c’è nulla di misterico in ciò se non il rimando all’ambiguità dell’agire umano nel momento in cui l’orizzonte di prospettive si fa nebuloso e imprevedibile. L’eternità non di Hitler, morto e sepolto, ma di una tentazione ancora attuale dinanzi alla crisi delle democrazie.