Sono in atto delle faticose discussioni tra Stellantis e il Governo per la localizzazione nel nostro paese di una fabbrica di batterie, mentre si ha notizia di altre due iniziative, non si sa ancora quanto fondate; ma intanto sono già state avviati 40 impianti nel settore in Europa. In nessuno l’apporto di imprese italiane sembra molto rilevante. Questo richiama, tra l’altro, l’attenzione sui mutamenti in atto nel mondo dell’auto e sulla forte debolezza nazionale nel settore.

La filiera dell’auto nel suo complesso sta attraversando le trasformazioni più importanti di tutta la sua storia. Le vetture, come ha sottolineato qualcuno sinteticamente, saranno elettriche, a guida autonoma, connesse (o, come si dice in giro, diventeranno dei telefonini a quattro ruote), condivise (cioè prese in affitto e non acquistate) e probabilmente per la gran parte prodotte in Asia.

Tali mutamenti mettono in discussione la stessa sopravvivenza di molti degli attuali protagonisti del mercato, tra l’altro con l’ingresso in forze sia di nuovi attori (si pensi a Tesla o ai molti nuovi operatori cinesi), sia di protagonisti provenienti dal settore digitale. Essi minacciano inoltre fortemente i livelli di occupazione; le vetture elettriche comportano molti meno pezzi da produrre e da montare, mentre con l’avvento della vettura a guida autonoma si dovrebbero collocare sul mercato molte meno auto di prima.

Ne soffriranno molto quelle imprese che non riusciranno ad adeguarsi ad un mondo completamente diverso. Non solo ci sarà molto meno lavoro per loro, ma i componenti che serviranno saranno prodotti con tecnologie molto lontane da quelle attuali. Se pensiamo al quadro della componentistica nazionale, si potevano avere delle preoccupazioni rilevanti già prima che tutte queste novità venissero avanti.
Il settore impiega oggi in Italia circa 165 mila addetti, mentre le sue vendite si collocano per circa il 50% del totale verso la vecchia Fca. Per il resto esso è riuscito a trovare uno sbocco molto importante alle sue produzioni presso i costruttori tedeschi.

Ma la situazione non sembra brillante; come ci ricorda ad esempio Filomena Greco in un articolo comparso su Il Sole 24 Ore del 27 aprile, le imprese del settore hanno una dimensione media molto contenuta, spesso con una specializzazione spinta; esse già prima della rivoluzione in atto avevano bisogno di una maggiore diversificazione, di un rilevante aumento delle dimensioni, di un innalzamento del loro livello tecnologico.
Per capire cosa si sta ora preparando, accenniamo alle vicende recenti della Foxconn e della Bosch.

La società taiwanese, nota, tra l’altro, perché produce i telefonini per conto di Apple, ha da poco riunito in consorzio 1200 imprese, riuscendo così ad offrire piattaforme complete hardware e software per le nuove auto elettriche e per quelle a guida autonoma; i prodotti e servizi offerti rappresenteranno l’80% del valore del processo di sviluppo e costruzione di un veicolo, lasciando alle case tradizionali solo il restante 20% (disegno carrozzeria, interni, marchio, ecc.).

Contemporaneamente, la tedesca Bosch, la più grande azienda di componentistica del mondo, fattura da sola molto di più di tutte le società italiane del settore messe insieme; essa sta perseguendo con grande tempismo e decisione la trasformazione da impresa industriale tradizionale del settore meccanico, a produttore sempre più concentrato sulle tecnologie numeriche, sulla connettività e sul software, sull’internet delle cose e sull’Ai (intelligenza artificiale).

In Germania quella dell’auto è la prima industria del paese, con 2,2 milioni di occupati diretti, mentre si calcola che un addetto nel settore ne produca altri sette nel resto dell’economia. Un grande problema è quello che tra l’80 e il 90% dei dipendenti sono legati alla tecnologia del motore a combustione interna (dati tratti da un articolo di Cécile Boutelet apparso su Le Monde del 17 giugno). Sembra quindi evidente che il paese si trova di fronte al grande problema di organizzare tempestivamente la transizione verso le nuove tecnologie. Un altro problema, su cui non ci soffermiamo, è rappresentato dal fatto che una quota molto importante delle sue vendite, delle sue produzioni e dei suoi profitti vengono realizzati in Cina.

Ora la IG Metall ha preso l’iniziativa (Boutelet) e in collegamento con le imprese del settore, con il mondo politico e religioso, le associazioni ambientaliste e sociali, ha lanciato un fondo di investimento, finanziato per la gran parte da capitali privati, che dovrebbe acquisire piccole e medie imprese operanti nella componentistica tradizionale ed organizzare, in un orizzonte di lungo termine, la loro transizione verso i settori di avvenire.
Considerando il quadro sopra descritto, ci sembra che in Italia il dibattito sul tema sia molto indietro e che le prospettive della nostra industria componentistica, con qualche eccezione, appaiono piuttosto buie.