Riprendo l’argomento del falso d’arte richiamato in questa rubrica a proposito delle opere «duccesche» realizzate da Icilio Federico Joni (1866-1946) negli anni Venti del Novecento. Un esiguo numero di pitture frammentarie, ma tali, per l’alta qualità da indurre la critica a identificarne l’autore in uno stretto collaboratore di Duccio di Buoninsegna.

Una personalità riconoscibile, dunque, secondo gli studiosi, della scuola di Duccio attivo nella sua bottega, come si può rilevare da alcuni particolari delle Storie della Passione di Cristo nella faccia posteriore della Maestà. È a costui che andrebbe ascritto il Tabernacolo n°35 conservato a Siena nella Pinacoteca Nazionale. E come «Maestro del Tabernacolo 35» fu allora designato l’anonimo pittore. E del resto, confrontando i pochi dipinti che si diceva, le affinità sono evidenti. In certi brani, ricorrono i medesimi stilemi tanto che non solo è legittimo accostare, ma addirittura sovrapporre alcuni dettagli.

È che il modo tenuto da Joni nel procedere alla realizzazione delle sue opere «duccesche» è proprio quello di accostare dettagli desunti da alcuni particolari delle antiche tempere desumendoli non da un’unica tavola, ma da un selezionato numero degli originali del Trecento. Sicché, quanto vien costatando il critico applicandosi ad un opportuno vaglio di raffronti e paragoni, è esattamente corrispondente a ciò che Joni è venuto disponendo sulla sua tavola, conferendo un inedito ed univoco assetto alla sua cernita di dettagli, ora sapientemente ravvicinati nel rispetto dei canoni di Duccio e della sua scuola.

Così lo studioso, il critico, il conoscitore animati dall’intento di verificare falsificare la autenticità o meno dell’opera che stanno analizzando, senza avvedersene percorrono a ritroso la via seguita da Joni. Sono, per così dire, presi per mano dall’autore. Da lui ricevono le indicazioni per non debordare, per attenersi a quella certa via «segnata» in precedenza. Giungono, passo dopo passo calcandone le tracce, ora a un primo ora ad un secondo dettaglio autentico e così via. Dettagli autentici che garantiscono al falso d’arte d’essere dai conoscitori ri-conosciuto per vero.

La virtù di un falsario di alto rango come lo è Joni – tra i rarissimi – è la più lontana dalla abilità del copista. Entrambi, falsario e copista, diciamo così, «trasferiscono». Ma il copista sposta e duplica. Il falsario disloca e ricrea. Come in un ricalco il copista fissa, iberna l’originale. Il falsario mantiene una tensione libera entro le energie contenute nell’originale, le sue proprie. Le rispetta miscelandole e coordinandole al fine di istituirle come unitaria opera, non autonoma, ma con l’originale coerente. Ed è nella sua originalità-autenticità che essa si costituisce all’occhio del conoscitore. Perché il falsario acquisisce ed elabora stilemi che risultano ben noti al conoscitore, al critico, allo studioso e li mette in evidenza, li rende manifesti. Il falsario e il critico che operino negli stessi anni agiscono secondo giudizi (e pregiudizi) condivisi.

Essi partecipano del gusto della loro epoca, hanno in comune senza avvedersene declinazioni di cultura e maniere le quali, per vie impercettibili, si depositano tuttavia segretamente e rilasciano la patina del tempo in cui il falso d’arte fu eseguito. Patina dunque datata anch’essa che affiora allorché un certo numero di anni sia trascorso. Ecco perché un falso d’arte di elevata fattura raramente, nel momento della sua realizzazione, si rivela per tale all’esame degli esperti contemporanei. A conferma, molti casi si potrebbero opportunamente citare. Uno tra gli altri: Bernard Berenson pregato nel 1928 dall’antiquario Georges Wildenstein di valutare un’opera giovanile di Benozzo Gozzoli. Lo scomparto d’una predella ove si illustrava, in maniere riconducibili al magistero del Beato Angelico, un Miracolo di san Nicola di Bari. Berenson non ne escludeva allora l’autenticità. La mise in dubbio Federico Zeri nel 1985, quando l’opera era con sicurezza inclusa nel catalogo di Gozzoli. Finché, nel 1994 Gianni Mazzoni non dimostrò con certezza che si trattava di un Gozzoli di Joni.