Nel giro di 48 frenetiche ore Donald Trump ha annunciato via Twitter il ritiro delle forze Usa dalla Siria, svelato “l’accordo” col Messico per ospitare i richiedenti asilo centroamericani (subito bloccato dalla Corte suprema) e assistito alla peggiore chiusura settimanale di Wall Street in 10 anni. Tutto questo prima di prendere ostaggio il governo federale con il blocco del bilancio (shut down) – rappresaglia contro il Congresso che non ha approvato i fondi per la costruzione del “suo” muro di confine.

CIÒ CHE EMANA dalla Casa bianca è un senso sempre più palpabile di caotica deriva e imminente precipizio. La settimana precedente avevano lasciato il capo di gabinetto Kelly (spossato) e il ministro dell’interno Zinke (indagato). La rinuncia del ministro della Difesa Jim Mattis che se n’è andato sbattendo la porta all’indomani dell’annuncio sul ritiro siriano, è l’ultima delle dimissioni e licenziamenti a catena che hanno decimato l’amministrazione Trump. Nella misura in cui il presidente ascolta consigli di qualcuno, sono di esagitati demagoghi estremisti come Sean Hannity, Rush Limbaugh e una schiera di altri strilloni della destra radiotelevisiva.

Mattis è stato dipinto come l’ultimo “adulto” a lasciare l’amministrazione. In realtà è un guerrafondaio vecchio stampo, paladino di un egemonismo americano imposto alternatamente col predominio dei mercati e una potenza di fuoco strategicamente applicata.

[do action=”citazione”]Tutto però è relativo, e nel contesto dell’amministrazione Trump, il marine soprannominato «cane pazzo» passa per voce della ragione.[/do]

 

MATTIS, È VERO, ERA L’ULTIMO dei “generali” di Trump considerati elemento moderatore, non certo voci progressiste, ma forze “stabilizzanti” in virtù dei legami con istituzioni internazionali come la Nato. Senza di essi e con una cerchia immediata sempre più stretta e assediata (e dinastica) ci si può attendere un’impennata degli erratici colpi di coda che hanno caratterizzato la presidenza nazional populista.
La estemporanea politica sparata a colpi di tweet minaccia di scombussolare i collaudati equilibri fra Wall Street e Pentagono e lo spettacolo più inverecondo è il balletto dei conservatori che gli fanno da coro, ma guardinghi come se non sapessero ogni giorno quale improperio twittato possa portare la mattina seguente.

Trump è riuscito ad alienarne molti con imperscrutabili uscite umorali che lo inducono dopo notti insonni trascorse a guardare i suoi mezzobusti preferiti su Fox News, a cambiare repentinamente rotta sugli affari di stato – o magari a designarne qualcuno ad ambasciatrice all’Onu (come avvenuto due settimane fa). A volte le estemporanee decisioni spiazzano sia alleati che nemici, sostenitori politici e oppositori.

LA DE-ESCALATION MILITARE in Medio Oriente sarebbe in termini assoluti una notizia positiva e invece ha posto molti progressisti nella scomoda posizione di criticare l’improvviso ritiro come espressione di uno stile autoritario su cui vige il sospetto di un pericoloso dilettantismo. O peggio. La decisione siriana seguirebbe a stretto giro una «telefonata di affari» in cui Erdogan si è impegnato per l’acquisto di una fornitura di missili Patriot made in Usa. Un vantaggioso affare che, come già dimostrato in Arabia saudita agli occhi di Trump equivale a giustificazione per il finanziamento di una guerra (come l’aggressione genocida in Yemen), lo smembramento di un giornalista o eventualmente un ritiro patteggiato che spiana la strada all’annientamento dei Curdi, alleati non più utili. Il “ritiro” poi preluderà plausibilmente sia a un’intensificazione dei raid aerei che a un possibile trasferimento degli appalti ai mercenari dell’amico Erik Prince (già capo di Blackwater).

[do action=”citazione”]La decisione esprime in altre parole non una strategia geopolitica coesa, ma un isolazionismo esacerbato e vicino all’originaria concezione dell’America First! sbandierato sin dalla campagna elettorale: quella autarchica dei movimenti xenofobi e filonazisti degli anni ’30.[/do]

OGNI INIZIATIVA ha in comune soprattutto una sostanziale amoralità elevata a valore e a policy. Ai tradizionali azionisti conservatori di riferimento Trump ha sostituito il referente unico della base fedele, il partito del rancore che sostiene il suo indice di gradimento vicino al 40%.
È questa l’unica platea a cui il presidente indirizza i suoi editti e la concatenazione di messe in scena che comprendono in ordine sparso la mobilitazione dell’esercito sul confine messicano, i missili sulla Siria, la guerra commerciale con la Cina e i coreografati “tele-armistizi” con Kim Jong-un. Una costante altalena da tv reality che provoca tuttavia vittime fin troppo reali. Gli immigrati nelle tendopoli sul confine, i Curdi abbandonati a se stessi, l’ambiente deturpato da politiche “ecologiche” appaltate alle lobby industriali, i trattati stracciati.

NELLA VERTIGINE par di poter discernere un possibile crepuscolo per il più pericoloso dei regimi populisti, l’inizio di una parabola declinante inesorabile come quella che sembra profilarsi infine per il Dow Jones. Una decadenza alimentata da una qualche combinazione di erosione politica, crisi economica e pressione giudiziaria (sempre in settimana la fondazione Trump in cui erano coinvolti i tre figli del presidente ha patteggiato la chiusura per illeciti finanziari e fiscali). Ma il declino potrebbe essere lungo e difficile e comunque lasciare il tempo per fare molti danni ancora.