«Le nostre esportazioni coincidono con i deficit altrui»: a dirlo forte e chiaro fu l’ex-cancelliere socialdemocratico (Spd) Helmut Schmidt, vecchio saggio della politica tedesca, nel 2011 di fronte ai delegati del suo partito riuniti a congresso. L’anziano leader tenne un formidabile discorso sugli errori che la Germania guidata dalla democristiana (Cdu) Angela Merkel stava compiendo nella politica europea. Errori pericolosi, al punto da rischiare di compromettere il futuro del progetto dell’integrazione del Vecchio continente, l’obiettivo della vita per la generazione del 95enne Schmidt.

Da allora, nei fatti poco è cambiato. Qualcosa si è mosso, invece, nella percezione del problema, che adesso appare più diffusa. A far buona compagnia a Schmidt e ai critici di sinistra della politica economica della Repubblica federale – in particolare esponenti della Linke – c’è dall’altro ieri la Commissione europea, che ha fatto proprie le riserve espresse anche dal governo degli Stati Uniti nelle settimane precedenti. Se la Germania esporta troppo, gli squilibri delle bilance commerciali interni alla Ue mettono ancora più in difficoltà i Paesi «periferici» in crisi: questo è il succo dell’accusa. La raccomandazione che viene da Bruxelles, quindi, è simile alle richieste avanzate da molto tempo, in Germania, sia dalle sinistre sia dai sindacati: aumentare gli investimenti interni, far crescere i salari e quindi i consumi interni.

Una misura coerente con questa politica di riequilibrio sarebbe l’introduzione del salario minimo legale di 8,5 euro all’ora, che la Spd ha posto come condizione irrinunciabile per firmare l’accordo di governo con i democristiani della cancelliera Merkel: lo ha ribadito ieri il segretario Sigmar Gabriel, appena riconfermato alla testa del partito, nella prima giornata del congresso in corso a Lipsia. Tale provvedimento, che porterebbe a un aumento dei compensi dei lavoratori in molti settori, incontra molti ostacoli: a farsi sentire, da ultimi, sono stati nientemeno che i cosiddetti «saggi dell’economia», ossia i membri di un comitato ufficiale di esperti che offre annualmente i propri pareri al governo (in documenti di centinaia di pagine). Salvo il keynesiano Peter Bofinger, gli altri studiosi sono incalliti liberisti: come non poteva non essere, hanno messo in guardia dall’assumere decisioni dannose – secondo loro – per le imprese tedesche. Vade retro, quindi, legge sul salario minimo.

Sul fronte delle reazioni politiche alle notizie piovute da Bruxelles, si registrano levate di scudi in campo democristiano e imbarazzi in quello socialdemocratico. La Spd, infatti, sostiene tesi simili a quelle difese ora dalla Commissione europea, ma subisce l’offensiva dei futuri alleati della Cdu-Csu, che difendono senza se e senza ma la linea filo-export seguita fino ad ora. Gli avvertimenti della Ue sono presi da una buona parte dell’establishment politico-economico della Repubblica federale come un’offesa, ma secondo l’autorevole quotidiano Süddeutsche Zeitung sono pienamente giustificati: come scrive il caporedattore economico Ulrich Schäfer, l’orientamento verso l’esportazione porta con sé anche la fuoriuscita di capitale tedesco che finisce per alimentare i debiti privati e le bolle speculative dei Paesi in crisi. Molto meglio sarebbe che lo stesso denaro si trasformasse in investimenti interni e in aumenti salariali in grado di far crescere i consumi dei lavoratori tedeschi.

Analogamente alla questione dell’export, nessuna novità in vista nemmeno sugli altri dossier europei: come emerge da informazioni diffuse dai media tedeschi, nel programma che democristiani e socialdemocratici stanno mettendo a punto dovrebbero essere esplicitamente escluse forme di mutualizzazione dei debiti pubblici, così come gli eurobond.

L’esecutivo di grosse Koalition, insomma, rischia di assomigliare molto a quello precedente, cristiano-liberale.