Alan ha grandi occhi e grandi mani. Occhi di un colore che non sai definire, dove il verde si mescola al blu intenso e dove tanta vita si è specchiata davanti. Muove le mani come fossero ali, mani con cui disegna davanti a sé la sua statura interiore e con cui fa tante cose.

ALAN È ABORIGENO, E NANO. Una malformazione alle ossa l’ha costretto per 14 anni in un letto di ospedale, completamente solo. Ogni volta che si tirava su in piedi rischiava di andare in pezzi e solo quando la crescita si è arrestata ha potuto mettersi dritto sul suo mezzo di trasporto più prezioso, le stampelle. Faceva il pittore quando un giorno, aveva già 31 anni, ha scoperto di essere aborigeno. Si è messo sulle tracce di sua madre, ritrovata dopo meticolose ricerche, per ricucire lo strappo della generazione degli stolen children, i bambini sottratti alle famiglie di origine per essere «assimilati» alla società civile. Allontanati perché di sangue misto, nella maggior parte dei casi frutto della relazione di un bianco con un’aborigena, spesso conseguenza di una violenza carnale. I piccoli venivano cresciuti in appositi istituti, o affidati a famiglie australiane e così, con le unioni successive di mulatti con bianchi si otteneva la perdita dei tratti somatici indigeni entro la quarta generazione, cancellando l’identità di un popolo che in Australia è stato escluso dal voto fino al 1967.

UNA POLITICA per trasformare gli aborigeni in «perfetti australiani», che ha coinvolto circa 100 mila bambini tra il 1935 e la metà degli anni Settanta. Le madri per sottrarre i figli agli agenti governativi li nascondevano nel bush, tingevano loro il viso. Non è bastato a salvare un’intera generazione.

SONO QUESTI I RACCONTI di cui Alan C. Parsons si fa portavoce ai piedi delle Glass House Mountains dove vive, non lontano da Brisbane. Di fronte a lui si staglia una delle skyline naturali di culto della cultura aborigena: «Qui tutto è madre e padre», spiega, mentre illustra i nomi dei picchi e delle creste come fossero parenti viventi, disegnando una genia orografica che è premessa dell’insegnamento più importante che Alan vuole condividere: «Per la nostra cultura, la terra è un organismo vivo, esistente, per questo appartiene solo a se stessa» afferma, sgranando gli occhi chiari.

«Così quando siamo stati conquistati la violenza che abbiamo subito è stata doppia – aggiunge -. Violenza su di noi e violenza su questa terra, di cui non ci siamo mai appropriati, ma che abbiamo vegliato come custodi nei secoli». Non esiste il concetto di proprietà privata nell’ethos millenario di questo popolo. «Ogni volta che decidi di portare via con te qualcosa da una montagna o da una foresta – un fiore, un sasso, qualsiasi cosa – perché non diventi un furto chiedi il permesso: se domandi senza pretendere, ti verrà sempre concesso in prestito».

«CHIEDI IL PERMESSO» è il mantra che Alan ripete mentre ci incamminiamo lungo il sentiero di accesso a Mount Beerwah, la Montagna Madre, ancora oggi protetta dal popolo Jinibara. Camminiamo per alcuni minuti, poi ci fermiamo: «Ecco, da qui è bene non andare oltre, perché inizia l’ascesa alla vetta: sarebbe come salire sulla testa di Beerwah». Osservo i turisti distratti che proseguono il percorso malgrado i cartelli di avvertimento, gli australiani noncuranti venuti a fare jogging, o a portare a spasso il cane. Alan approfondisce il concetto: «Ogni volta che la natura non viene rispettata, noi proviamo un dolore fisico, personale: quello che stai infliggendo alla montagna, lo stai infliggendo a te stesso».

ALAN C. PARSONS è ormai da anni molto popolare tra gli aborigeni anche ben oltre i confini della Sunshine Coast. «Non siamo una razza – dice -, ma il popolo che è stato qui da sempre». Quest’anno ha organizzato numerosi eventi per ricordare i 50 anni dal Referendum del 1967, che ha permesso di rimettere mano alla Costituzione per dare il diritto di voto agli indigeni. Da allora alcuni passi sono stati fatti per riconoscere le storiche ingiustizie subite, ma solo nel 2008 il primo ministro australiano Kevin Rudd ha presentato le scuse ufficiali, in particolare nei confronti della «generazione rubata», azione che un’inchiesta nazionale ha recentemente giudicato «genocide».

Purtroppo ancora oggi le cose non vanno come dovrebbero. Un recente report del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite riporta numeri impressionanti: la popolazione aborigena, che costituisce solo il 3% di quella australiana, rappresenta il 27% della popolazione carceraria, percentuale che diventa molto più alta in alcune prigioni.

PREOCCUPANTI SONO I DATI sulla popolazione minorile: nel Cleveland Youth Detention Centre di Townsville, ad esempio, i bambini aborigeni costituiscono il 95% dei detenuti. Si tratta di bambini essenzialmente puniti per essere poveri, che nella maggior parte dei casi passano da una condizione di out-of-home care a quella di detenzione. È la conseguenza di una triste catena di violenze iniziata quando gli inglesi hanno messo piede in Australia: si calcola che dal 1788, in cui si contavano circa 770 mila nativi, la popolazione sia stata ridotta del 90% tra il XIX e il XX secolo. Nel 1900i nativi erano circa 117 mila.

MOLTE VOLTE si è ricorso all’avvelenamento di cibo o acqua fino all’ultimo massacro, avvenuto a Coniston, Territorio del Nord, nel 1928. Uccisi, ma anche decimati da malattie ignote, dalla perdita della terra che rappresentava una naturale fonte di cibo, dall’impatto con cibi nuovi (zucchero, farina raffinata, alcol, junk food) e conseguente diffusione del diabete di cui ancora oggi sono malati in percentuali drammatiche.

Con la diffusione dei grandi allevamenti di bovini e ovini gli aborigeni diventarono una significativa forza lavoro, a volte ridotta in condizioni di schiavitù. E prima della presunta «parificazione dei salari» del 1965, se c’era un compenso bastava appena per procurarsi il cibo quotidiano e comunque non superava mai la metà di quanto guadagnava un lavoratore europeo sottostipendiato.

Ma ancora oggi l’alcolismo, la disoccupazione, la bassa aspettativa di vita sono visibili a ogni angolo di strada, nelle grandi città “bianche” come nel cuore dell’outback, ad Alice Springs: qui quasi la metà degli uomini aborigeni, e oltre un terzo delle donne, non supera i 45 anni. Come si sentono i nativi oggi? «Lost!», perduti, è la risposta più ricorrente. È quella di Aaron nella foresta pluviale di Daintree, pelle nero-notte come la gente Kuku Yalanji, che dialoga con piante millenarie, di cui spiega ogni virtù, come fossero i suoi antenati. «Gli ancestors sono ovunque se li sai vedere… su una foglia, dentro una pietra, nel volo di un kookaburra». È la risposta di Dam che con sua moglie Karin suona il blues, ma quando è solo fa cantare il didgeridoo nella sua casa a picco nel Noosa National Park.

UNA DELLE SOLUZIONI POSSIBILI viene da Connor, un ragazzone dal ciuffo anglosassone che fa la guida a Uluru per i Backpacker Deals, i viaggiatori zaino in spalla intorno alla montagna sacra degli aborigeni conficcata al centro dell’Australia. Quando gli chiedi se è aborigeno lui risponde «sì certo», poi scopri che sua madre è scozzese, il padre è australiano e lui non ha tracce di sangue nativo. Eppure parla il dialetto Pitjantjatjara e vive come loro. «Perché sentirsi aborigeni – dice – non è questione di sangue: è una cultura, un sentimento. Significa non essere australiani da 250 anni, ma appartenere da sempre a questa terra».