Torniamo a dare il giusto peso alle parole. Quella che stiamo vivendo è una lotta di classe. Oggi la fanno i ricchi contro i poveri che sono stati messi a morte dalle politiche dell’austerità. Il tono è enfatico, ma sono le parole usate dal Nobel per l’economia Joseph Stiglitz per descrivere il più grande saccheggio della ricchezza avvenuto in tempi moderni. La violenza della crisi è tale da mettere a rischio la vita di milioni di persone. Gli autori dell’undicesimo «Rapporto sui diritti globali» (Ediesse), presentato ieri a Roma presso la sede centrale della Cgil in Corso Italia, spiegano nelle oltre mille pagine del volume le caratteristiche della guerra di rapina condotta dal capitalismo finanziario e descrivendo il meccanismo di una «redistribuzione al contrario». Quella messa in piedi dal 2008 dalle politiche dell’austerità nell’Unione Europea è una gigantesca macchina di drenaggio verso l’alto dei redditi da lavoro e dei risparmi delle famiglie.

Le banche, i fondi di investimento, le grandi imprese, lo Stato che aumenta il carico fiscale sui cittadini senza restituire nulla in servizi, hanno accumulato un’enorme massa monetaria che non «sgocciola» nell’economia reale, resta nelle sfere della finanza e viene usata per acquistare o vendere buoni del tesoro che non modificano il quadro della crisi. Questa situazione ha annientato la produttività del lavoro in Italia. Dal 2000 al 2009 è diminuita dello 0,5% ogni anno, impresa mai riuscita in un paese a capitalismo avanzato fino ad oggi. Gli occupati italiani lavorano di più dei colleghi europei, ma producono il 25% in meno dei tedeschi e il 40% in meno dei francesi.

Senza contare che l’occupazione è crollata di 1 milione e 700 mila unità dal 2008, abbattendosi con particolare violenza sui giovani tra i 15 e i 24 anni, il 41,7% dei quali è disoccupato (con punte di oltre il 50% a Sud). Ciò ha comportato un impoverimento generalizzato tra i pensionati e persino tra i bambini. Nel 2011 i bambini da 0 a 2 anni che avevano la possibilità di frequentare un asilo nido non superavano l’11,8% (era il 3% nel 2004). Su un totale di 16,7 milioni di pensionati, quasi 8 percepiscono una pensione inferiore a mille euro al mese, oltre 2 milioni non arrivano a 500. Senza contare che il processo di deregolamentazione del lavoro ha creato in Italia un esercito di lavoratori precari da 3.315.580 milioni di persone, più di mezzo milione delle quali lavorano per lo Stato, il più grande sfruttatore di lavoro precario al mondo. Il reddito di queste persone è di 927 euro mensili per i maschi e 759 euro per le donne. Queste cifre sono utili per dare un’idea della povertà dilagante nel nostro paese.

Questo processo è destinato a durare a lungo. L’Italia, come anche Francia, Spagna, Grecia o Portogallo, ha approvato nella loro costituzione l’impegno a ridurre il debito sovrano dall’attuale 130% al 60% sul Pil. Ciò porterà alla dismissione del patrimonio pubblico e alle liberalizzazioni, tagli alla spesa e altre misure che dovranno «risparmiare» 50 miliardi di euro all’anno per i prossimi venti. Fondi che alimenteranno la bolla degli interessi sul debito e non andranno in investimenti. La stessa sorte è toccata ai mille miliardi di euro prestati dalla Banca Centrale Europea alle banche europee altasso d’interesse irrisorio dell’1%. Le banche italiane hanno ottenuto 200 miliardi. Di questa montagna di denaro fresco solo il 5% delle persone sopra i 15 anni ha ottenuto un prestito negli ultimi dodici mesi, a fronte di una media europea del 13%. Questo significa che il nostro paese fluttua in una bolla finanziaria che espropria la ricchezza alle persone, non libera risorse verso il basso, ma le accumula in un forziere chiuso a doppia mandata da cui esce solo qualche centesimo. Questa è la cornice macroeconomica dove prolifera la disuguaglianza sociale.

Il reddito di uno dei 38 mila «straricchi» (lo 0,1% più ricco in Italia) vale oggi quello di cento poveri. Il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi il 45% della ricchezza totale, mentre riceve il 27% dei redditi. Il 50% delle famiglie più povere dispone di appena il 10% della ricchezza totale.

La responsabilità di questa tragedia non è solo di Berlusconi o di Monti che hanno gestito la parte terminale di una crisi che viene da lontano, cioè dall’inizio della cosiddetta «Seconda Repubblica» nel 1992. Oggi solo cinque paesi Ocse, tra cui gli Stati Uniti, mostrano disuguaglianze più feroci tra i ricchi e i poveri dell’Italia. Ad avere allargato la forbice tra le rendite e i redditi è stata l’abolizione della scala mobile nel 1984, la crisi valutaria ed economica del 1992 e la manovra finanziaria da 90 miliardi di lire fatta da Amato nello stesso anno. Da quel momento tutti i governi hanno portato il loro contributo alla lotta di classe in corso. Il «pilota automatico», una volta evocato dal presidente Bce Mario Draghi per spiegare la natura delle politiche economiche europee, indipendentemente dalla maggioranza politica alla guida di un paese, è stato azionato più di vent’anni fa. Da allora continua a pretendere l’applicazione rigorosa degli imperativi del rigore del bilancio, la liberalizzazione dei servizi e la precarizzazione dei rapporti di lavoro.

La tesi del rapporto sui diritti globali sostiene che il tentativo in corso di «ammorbidire» la cura preparata dalla Troika (Bce, Fmi e banca mondiale) per i paesi indebitati come Grecia, Spagna, Italia, Portogallo e ora anche Francia, non riuscirà a fermare la rovinosa corsa a precipizio del treno dell’austerità. L’obiettivo finale della lotta di classe è farla finita con il « modello sociale europeo», quello del Welfare, già dichiarato morto da Draghi. Lo dimostra il taglio del 90% alle politiche sociali che tra il 2010 e il 2012 sono passate da 435 milioni di euro a 43 milioni, mentre i fondi per scuola e università sono stati tagliati di 10 miliardi. Entro il 2015 la sanità subirà 30 miliardi di tagli. Alla luce di questi dati si comprende meglio l’utilità del governo delle «larghe intese». Parliamo di una forma politica postdemocratica che si è candidata a gestire la liquidazione dei diritti sociali in Italia e a normalizzare i conflitti sociali che potrebbero nascere. Un lavoro arduo, ma è a buon punto.

Il libro: il reddito di cittadinanza, una risorsa per i più deboli

Il «rapporto sui diritti globali. Il mondo al tempo dell’austerity» è un volume di 1097 pagine, curato da Sergio Segio per l’Associazione Società Informazione Onlus e pubblicato dalla casa editrice Ediesse (30 euro) con prefazioni di Susanna Camusso e Sharan Burrow. È il frutto della collaborazione di una serie di prestigiose associazioni, sindacati e enti culturali come Antigone, Arci, il Gruppo Abele, Legambiente, Sbilanciamoci!, la Cgil e le Comisiones Obreras Catalogna, la Fondazione Basso di Roma. Strumento eccezionale per la ricerca sociale e la critica dell’economia dell’austerità, il volume è diviso in otto parti che spaziano su tutti i temi del Welfare, del lavoro, dell’economia, dei diritti della persona, dell’ambiente e del territorio, delle carceri e della giustizia. Presenta una nutrita sezione di statistiche, schede e parole chiave, oltre a preziosi approfondimenti sui diritti civili.

Per uscire dalla «guerra dei trent’anni» del liberismo contro il Welfare, gli autori del «rapporto sui diritti globali 2013» indicano quattro priorità: 1) ripristinare la partecipazione democratica e il ruolo del pubblico nell’economia; 2) affiancare alla crescita della produttività e dell’efficienza economica il benessere delle persone, l’equità e l’uguaglianza in direzione di una maggiore sostenibilità sociale e ambientale; 3) indirizzare la crescita economica verso lo sviluppo di nuove attività ad alta intensità di conoscenza, favorendo l’occupazione stabile e sanzionando il ricorso delle imprese (e dello Stato) alla precarietà dei giovani e dei meno giovani; 4)consolidare la partecipazione della società civile, non profit e delle mobilitazioni sociali elaborando nuovi strumenti di intervento nell’economia e nella società. La centralità delle politiche «anti-austerity» dev’essere quella della ridistribuzione delle ricchezze, favorita da una riforma fiscale che colpisca il dominio economico esercitato dal 10% della popolazione più ricca. Particolare attenzione viene prestata al rilancio del «reddito di cittadinanza», e non del salario minino. Si chiede l’introduzione di una misura universalistica necessaria per rimediare all’esclusione sociale fatta di lavori poveri, intermittenti, precari e di non lavoro.