Strana, severa e eclettica con quei tratti quasi sacerdotali nelle sue interpretazioni. Accostarsi al mondo ricco e variegato di Nina Simone non è facile per nessuno. Ora che intorno alla sua figura si è acceso un ritorno di interesse con un documentario What happened, Miss Simone? realizzato dalla filmaker americana Liz Garbus (è uno dei doc su cui punta Netflix il prossimo autunno per il suo sbarco anche in Italia), qualche collega prova ad affrontare la temeraria prova di misurarsi con quel repertorio e quelle storie. La Rca ha da poco pubblicato Nina revisited: a tribute to Nina Simone, con una serie di canzoni tratte dal repertorio della cantante nata a Tryon nel Sud Carolina, reinterpretate fra gli altri da Mary J. Blige, Common, Usher, Gregory Porter, Jazmine Sullivan, Lisa Simone (la figlia dell’artista). Operazione corretta, senza sbavature con misurate modernizzazioni e una spolveratina di pattern elettronici che fanno molto nu soul.

Ma l’intero progetto si invola letteralmente quando irrompe Lauryn Hill protagonista in sei brani: Feelin Good, I’ve got life, Ne me quitte pas, Black is the Color, Wild is the Wind, African mailman. Ecco, l’ex voce dei Fugees sembra non attendesse altro. Perché fatte le debite differenze, più di un tratto unisce la personalità dell’ex voce dei Fugees con la «High Priestess of Soul». Un’artista – un po’ come Simone – che si è posta mille interrogattivi, è fuggita dal successo (il debutto solista da 20 milioni di copie mai replicato), si è ritirata ricomparendo in pubblico in live set sempre sofferti che (lo avrà notato chi ha avuto la fortuna di assistere alle due recenti date italiane) regalano però emozioni rare e intense. Così come accade ascoltandola in questo omaggio distillare ogni parola, dilatare ogni frase e singolo sospiro.

Con un unico rimpianto: non poterla sentire misurarsi sulle note di Four Women, l’inno femminista ispirata alla condizioni delle donne nere lasciato (incredibilmente) fuori dai compilatori.