Al mattino le strade di Locarno sono ancora poco frequentate. Il festival dorme reduce da qualche party, sporadici sportivi fanno jogging lungo il lago mentre il mercatino ha già issato le sue bancarelle con oggetti (anche molto belli) di artigianato e prodotti alla lavanda che aiutano a dormire meglio. L’appuntamento è al Belvedere, l’hotel di lusso della cittadina svizzera inerpicato alla fine di una salita ripida, Laurie Anderson è seduta a colazione, i capelli corti un po’ spettinati di sempre, lo sguardo luminoso sul viso da ragazza e un magnifico vestito scozzese.
Al festival di Locarno Anderson è per ricevere il Vision Award Ticinomoda con la proiezione in Piazza Grande di Home of the Brave, il suo leggendario film del 1986 nel quale l’artista reinventava l’idea stessa del «film-concerto» mescolando musica, performance, immaginari in quelle riprese al Park Theatre di Union City, nel New Jersey, l’estate del 1985. Con lei che suona e danza appaiono Andrew Belew, Borroughs, David Van Tieghem, molti dei brani arrivano da Mister Heartbreak – qualcuno da United States, diversi sono originali, Language is a Virus diviene un manifesto della ricerca del tempo, e forse anche di questa artista che aldilà della vocazione multimediale e del gusto per la sperimentazione tecnologica, nel suo raccontare spazia con commovente naturalezza tra autobiografia e osservazione della contemporaneità americana, tra limpida analisi politica ed emozione profonda, tra memoria e filosofia.

Laurie Anderson
Quando ho iniziato le case discografiche dicevano che dovevano trovare un modo per «etichettarmi», pensavo fosse uno scherzo e invece è un’esigenza sempre più forte Laurie Anderson alla domanda «che effetto le fa rivedere Home of the Brave oggi» sorride. Preferisce sapere quali film abbiamo amato nei giorni del festival, lei ne è riuscita a vedere solo uno, Onde fica esta rua? ou Sem antes nem depois di Joao Pedro Rodrigues e Joao Rui Guerra da Mata che ha adorato: «È davvero incredibile, mi è piaciuto moltissimo come ci porta attraverso Lisbona al di là di una storia possibile, l’atmosfera, quel suo modo di attraversare la notte». E Home of the Brave?: «Non l’ho rivisto a parte l’inizio per controllare la copia che è molto buona e mi fa felice che venga proiettato così dopo averlo visto per anni su supporti che si erano rovinati. Penso che se si vuole guardare indietro si possono avere molte sorprese, la visione cambia, rivedere te stessa da ragazza, la felicità della musica, della danza può essere divertente, in fondo è un concerto. E spero che lo sia ugualmente per il pubblico di un festival come questo che unisce tanta varietà di film, dai classici agli sperimentali. Non ho nulla in contrario alle retrospettive, spesso me lo chiedono, la distanza può appunto aiutare a farti scorgere qualcosa di nuovo. Io però non amo pensare al passato, lo so che dai propri errori si possono imparare molte cose e migliorare nel prendere nuove decisioni ma io sono convinta che ogni fase dell’esistenza è diversa, le circostanze mutano e non necessariamente qualcosa che ha funzionato in passato va bene ora. Così preferisco guardare avanti».

L’America è oggi in un momento molto complicato: appare divisa, governata da politiche sempre più reazionarie – penso alla recente sentenza che ha fatto decadere il diritto all’aborto. Quale è il suo sentimento come artista di fronte a questo?

Viviamo una situazione terribile, ci sono tante armi e siamo così divisi che temo ci possa essere quasi una guerra civile. L’America è uno dei paesi più violenti al mondo – e anche la Russia sta mostrando una grande violenza – essere artisti in una realtà come questa spinge a chiedersi se l’arte può servire a rendere il mondo migliore. Credo che la risposta sia sì perché ha la capacità di creare empatia. Oggi molte opere di artisti rispecchiano il nostro mondo, provano a raccontare un collasso, un’apocalisse. Abbiamo vissuto una pandemia che ha ucciso milioni di persone, l’incertezza è il sentimento che meglio esprime la nostra epoca che nonostante quanto si vuol far credere è molto fragile. Eppure io resto ottimista e cerco di lavorare per rendere migliore quanto mi circonda, per creare degli attimi di felicità.

Nella sua ricerca artistica ha sperimentato molti linguaggi, generi, discipline: la musica, il cinema, la performance, la VR, l’arte – si è da poco chiusa «The Weather» all’Hirshhorn Museum di Washington, è stata la più grande mostra allestita sull’opera dell’artista, ndr.

Mi piace muovermi, mettermi alla prova e anche perdermi come dice Dante all’inizio della Divina Commedia… Amo ora soprattutto dipingere, scrivere, e anche fare un po’ di musica. Quando ho iniziato con le case discografiche tanto tempo fa dicevano che dovevano trovare un modo per «etichettarmi»; pensavo che fosse uno scherzo e invece adesso tutto questo è molto serio. Avere un’immagine, una definizione non è però qualcosa che mi corrisponde. Mi piace pensare che sia possibile andare oltre l’individualismo anche se è difficile nella nostra cultura, bisogna sempre vendere le cose e per farlo serve categorizzarle.

E la realtà virtuale, pensa di realizzarne ancora?

No, mi interessava confrontarmi con la tecnologia in un’esperienza artistica che ha bisogno del corpo in chi la fruisce e per questo è così diversa dal cinema; quando vedi un bel film appena si accende la luce ti senti fuori dal tempo e dallo spazio, ti perdi nella tua mente mentre con la realtà virtuale lo «spettatore» si deve muovere, deve seguire dei percorsi, utilizzare la fisicità. Ora siamo abituati a guardare le immagini ovunque, le persone sono sempre più attratte dagli schermi dei telefonini, dipingere è diverso, creare una storia con la pittura permette di metterti davvero in gioco, produce una diversa emozione. Penso di avere imparato molto con la VR, mi ha sorpreso la reazione di chi le utilizzava, il modo in cui ogni fruitore si appropriava dello spazio intorno e soprattutto che il pubblico migliore erano i più giovani, i bambini perché molto abili a muoversi velocemente. La tecnologia può offrire infinite possibilità soprattutto oggi aprendo degli universi affascinanti. C’è però sempre una parte legata fortemente al denaro, agli investimenti, e io preferisco non utilizzare tanti mezzi o strumenti costosi, mi basta un foglio di carta e poco altro. Lo stesso vale per i miei film, non ho mai pensato a una grande produzione, preferisco lavorare con piccoli budget.

Ne è un esempio un film come «Heart of a Dog» (2015).

Avevo solo la mia telecamera, ho girato per lo più in casa e poi ho mescolato molti elementi, disegni, dipinti, fotografie, vecchi 8 millimetri della mia infanzia, è come un collage e poteva non funzionare; poi le diverse parti si sono unite, all’inizio non sapevo bene dove sarei andata, mi dicevano che era confuso ma quella miscela mi piaceva e soprattutto pensavo che potesse esprimere quello che mi sta più a cuore, cioè raccontare delle storie in modo fantasioso e libero.