La proposta di abolire il valore del valore legale del titolo di studio è un classico di ogni legislatura. Nel 2012 il governo Monti abbozzò un’abolizione totale e lanciò una consultazione pubblica. Fu un fallimento. Non poteva mancare il governo Renzi che nel 2015 propose un emendamento alla riforma della P.A. Madia. Nei fatti era l’abolizione del valore legale della laurea come criterio qualificante per l’accesso ai concorsi pubblici. Anche in quel caso non se ne fece niente. Ultimo è arrivato nel 2018 Matteo Salvini, a dimostrazione della continuità ideologica sul quale è basata anche l’esperienza del presunto «governo del cambiamento» populista.

REGNO DELLA FALSA COSCIENZA, l’abolizione del valore legale della laurea, in vista del presunto valore reale del «mercato», è il ballon d’essai a cui i politici ricorrono per accreditare la rappresentazione per cui il cittadino è un imprenditore di se stesso. Il loro patrimonio si chiama «capitale umano» ed è composto da uno stock personalizzato di «competenze», abilità, «crediti» e «meriti» in competizione. Questo è un discorso paradossale in una società che ha ingurgitato massicce dosi di meritocrazia e dove è massima la crisi dell’accreditamento tanto delle istituzioni che dovrebbero certificare i «meriti», quanto del mercato incapace di valorizzarli.

IL DIBATTITO TRA LA TESI abrogazionista e quella continuista sul valore legale del titolo di studio è prigioniero di questa doppia crisi avvitata. La prima è quella del «credenzialismo», la cultura che ha legato l’emancipazione sociale all’accumulazione di titoli di studio e di qualifiche professionali riconosciute dallo Stato e capaci di assicurare il riconoscimento degli «esperti», la posizione di potere nel settore pubblico o in quello privato sulla base del prestigio ottenuto dalle credenziali dello statuto professionale e sociale. La seconda crisi è quella dell’ideologia della «formazione continua», l’apprendimento vincolato agli obiettivi stabiliti in maniera aleatoria in cicli economici in cui trionfa il lavoro precario a tempo indeterminato, il sotto-salario, il lavoro gratuito.

IN QUESTA SITUAZIONE l’abolizione del valore legale del titolo di studio comporterebbe altre conseguenze: la moltiplicazione dell’apparato di valutazione e certificazione di titoli che soffoca l’università e la ricerca (l’Anvur), governa a pieno regime anche la scuola (grazie alla riforma Renzi) e si salderà con il dispositivo amministrativo che governerà i poveri, quello del sussidio di povertà detto impropriamente «reddito di cittadinanza».

REGIONI E CITTA’ aprirerebbero così uffici per l’accreditamento per soddisfare le richieste delle aziende del territorio. Scuole, università, centri per l’impiego sarebbero divisi in serie A e B, quelli del Nord andranno meglio di quelli del Sud, in una moltiplicazione delle diseguaglianze di status, censo e territoriali. Nell’ambito delle professioni avvocati, ingegneri o giornalisti rafforzerebbero il mercato parallelo dell’accreditamento a pagamento, inflazionando uno scenario creato dalla crisi del credenzialismo tanto nel lavoro autonomo ordinistico, quanto in quello dei freelance. L’esito sarebbe il contrario di una «liberalizzazione». Le società basate sulla valutazione, statale e privata, non intendono semplificare, ma producono nuova burocrazia in un crescendo di suggestioni liberiste e prevedibili ricadute corporative.

L’OBIETTIVO DI CHI INVOCA il ritornello dell’abolizione del valore legale non è la maggiore efficienza del mercato, ma il tentativo di imporre una nuova subordinazione della forza lavoro. La regola può così essere riassunta: se vuoi studiare, lascia perdere, per il mercato è inutile. E se è utile, è solo quello che decide in un momento, ma in un altro no. Da questo punto di vista mantenere o abolire il valore della laurea, sempre che questo sia possibile senza una riforma costituzionale, non cambia il destino dei precari a tempo indeterminato. Se oggi i laureati prigionieri della corsa all’accreditamento, del «fare esperienza» tra stage, tirocini, e «lavori stronzata» (David Graeber), sono frustrati, domani lo saranno ancora di più. Non c’è salvezza nell’economia della promessa, sia essa governata dallo Stato, dal mercato, o da entrambi.

UN’ALTERNATIVA va cercata alle origini del discorso sul diritto allo studio. Preso alla lettera, e in maniera radicale, tale diritto indica l’unico valore reale dell’istruzione pubblica: la maturazione dell’autonomia della forza lavoro, la facoltà di pensare e governarsi liberamente. Di questo il sistema non ha bisogno, e lo combatte. Occorre invece rivendicarlo, interpretando un altro significato dello studio al di là dei suoi titoli. Lo studente non è mai solo ciò che studia, il lavoratore non è mai solo il lavoro che fa. Ciò che importa è il loro diritto all’esistenza. Non saranno lo Stato, né il mercato, a decidere come esercitarlo.