Oggi per l’autore di un libro l’appellativo «letterario», che una volta era il requisito minimo per fare quella che era definita Letteratura, a partire dal lavoro sulla lingua, in un mondo regolato solo dal mercato e dal marketing, è quasi sinonimo di elitaria marginalità. Quello che Laura Pugno chiama: «un pensiero che attraversa l’inconscio collettivo dell’editoria», è il romanzo medio di consumo, un oggetto rassicurante, soprattutto da un punto di vista formale, che spesso insegue la fiction televisiva, come se i movimenti interiori della vita combaciassero con i dispositivi esatti di una trama che inventa la realtà rendendola più attraente e spettacolare.

Con In territorio selvaggio (Nottetempo, pp. 128, euro 10), un prezioso saggio breve quanto intenso, una delle nostre scrittrici più originali e, per l’appunto, letterarie, dotata di un profondo e sofisticato pensiero narrante, si chiede qual è il senso della lettura, della lettura che sta nella scrittura, oggi, sospeso tra conforto e conoscenza, tra «bosco – il luogo del selvaggio per eccellenza – e giardino». La «forma di conforto», frutto della rimozione della morte, le fa scrivere: «Siamo così invecchiati, noi lettori, da non poter più sopportare il dolore?». E ancora (a proposito del lettore): «Torniamo a casa, ci sdraiamo sul divano, rifiutiamo di vedere che la casa è in fiamme».

Scrittrice del perturbante, indagatrice di confini tra realtà e fantastico, anche con l’ultimo La metà del bosco (Marsilio) nel saggio riverbera anche la sua produzione narrativa e in versi, le quali cerca in qualche modo di contaminare con uno stile francescano, spogliato di ogni orpello, per questo maggiormente espressivo, la «lingua semplice» evocata da Italo Testa.

I LIBRI di Laura Pugno, come i ragionamenti che stanno in questo libro, composto per brevi frammenti di pensiero nella forma disorganica del quaderno d’appunti, tutti rigorosamente narrativi, partono dalla convinzione che la letteratura abbia una forte componente animale, corporale, «selvatica», e che invece di confortante, quando è buona letteratura, debba essere, al contrario, perturbante, calarsi nelle segrete, perché «la letteratura è occhi nuovi, straniamento, bosco», sentire assoluto, «L’onda del mare e il mare», la consapevolezza che «è realtà, e non solo nel realismo».

Ma è questo che il lettore chiede oggi a un libro? Se la poesia è esplorazione, dove si coltiva il selvaggio, anche per una condizione editoriale di «improduttività», secondo l’autrice invece il romanzo è condivisione. Ma quale romanzo? Quello di forma edulcorata e contenuto rassicurante, che «fa editing di tutto ciò che è bosco», o quello di «ricerca» che Pugno auspica, «minoritario, perché in qualche misura disturbante», frutto di una comunità che viene, fatta di figure dell’avvenire che vivono ai margini, in quello che chiama «l’incolto dell’editoria».

L’atto politico di questo saggio necessario sta proprio questa forma di resistenza nello scrivere in un territorio dichiarato «riserva», «spazio comune del futuro».