Era il 1967, Laura Nyro aveva vent’anni ma non vedeva l’ora di averne 30. Era stata una ragazzina sola e triste e finalmente si sentiva felice. All’inizio dell’anno era uscito il suo album di debutto, entrato per un soffio nella Top 100 di Billboard. Alcune di quelle canzoni sarebbero diventate dei successi per Blood Sweat & Tears, The 5th Dimension e Barbra Streisand. Laura era ambiziosa e determinata, aspirava a una maturità che, a suo dire, l’avrebbe resa meno scapestrata e più aggraziata. Possedeva già il portamento e i gesti di una donna d’altri tempi – gli abiti lunghi, le maniere eleganti, il vezzo di arrivare in studio di registrazione prendendo una carrozza trainata da un cavallo. Se le presentavano qualcuno, gli porgeva la mano per farsela baciare. «In me sento i geni delle generazioni precedenti, non possiedo molto della generazione dei miei genitori», disse in un’intervista.

Né con quel primo disco, né con i successivi avrebbe piazzato un singolo nella Top 40, ottenuto un disco d’oro o vinto un Grammy, eppure le sue canzoni hanno venduto milioni di copie cantate da altri. Paradossalmente il suo singolo di maggior successo fu una versione di Up on the Roof di Carole King e Gerry Goffin: un episodio emblematico della carriera insolita, da outsider, di una donna che a vent’anni era proiettata verso lo stardom, che invitava in studio Miles Davis e chiedeva a Gil Evans di arrangiare le sue canzoni, ma che è rimasta un’artista di culto, assai meno omaggiata di Carole King o Joni Mitchell. Una loner, una figura solitaria, impossibile da assimilare a una scena – né Laurel Canyon né Greenwich Village – perché la sua scena era New York: «You look like a city, but you feel like a religion to me», scrive in New York Tendaberry.

Ascoltate i suoi dischi, anche solo i primi tre, e sentirete la sua eco in generazioni di musiciste assai diverse tra loro. Partono le prime note di Eli and the Thirteenth Confession e si scopre da chi ha imparato il fraseggio e lo swing Rickie Lee Jones, a quale Erinni musicale attingono Tori Amos e Fiona Apple e qual è il precedente della libertà visionaria ed eccentrica di Joanna Newsom. L’eredità di Laura Nyro è come un tracciante ricaptato da giovani donne determinate a portare avanti la loro visione. Jill Cuniff delle Luscious Jackson le è debitrice per quella vena confessionale che ha dato voce a un universo femminile fino a quel momento covato e inespresso.
Anche gli uomini le sono riconoscenti: l’ossessione di Peter Buck dei Rem risale alla sua adolescenza. «Nessuno ha mai fatto musica così e Laura non ha mai avuto il rispetto che merita», dice. Louie Perez dei Los Lobos è perentorio: «Quello che Hendrix ha fatto per la chitarra, Laura Nyro l’ha fatto con la voce e le canzoni». Se Todd Rundgren ha cambiato il suo modo di scrivere dopo averla ascoltata, Elton John la idolatrava: «L’anima, la passione, l’audacia radicale dei suoi cambi melodici e ritmici erano qualcosa che non avevo mai sentito prima».

In effetti certe invenzioni sono spiazzanti nel pop, inaudite, sofisticate in modo naturale, non escogitate. È l’humus in cui è cresciuta, i suoni di cui si è nutrita a cominciare da quelli delle strade di New York, all’epoca anfiteatri all’aperto dove risuonava il neo doo-wop cantato a cappella, la nuova moda alla fine dei ‘50. Laura, il nome le veniva dal tema scritto da David Raksin per il film di Preminger, era nata nel Bronx nel 1947, figlia di Gilda Mirsky e Louis Nigro. La famiglia paterna pronunciava il nome «naigro» per evitare implicazioni razziali, ma lei lo cambiò in Nyro pronunciandolo «niro», in controtendenza.
La madre era ebrea ucraina-polacca, il padre per metà ebreo russo e per metà italiano-russo. Lei lavorava come contabile, lui – trombettista e accordatore di pianoforti – suonava ai matrimoni, bar mitzvah e nei club. Laura e il fratello Jan crescono con la musica e le arti visive. «Mi ha sempre interessata la coscienza politica di certe canzoni. Mia madre e mio nonno erano progressisti, perciò mi sono sempre ritrovata nel movimento pacifista e in quello delle donne».        

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A casa il padre si esercitava suonando insieme ai dischi di Woody Herman e Count Basie, la madre amava i musical di Broadway, l’opera e la musica classica, portava i figli ai concerti per i giovani organizzati da Leonard Bernstein. Nella formazione musicale di Laura confluiscono Leontyne Price, Ravel, Debussy e il rock. I primi 45 giri che compra sono Bye bye love degli Everly Brothers e Mr Lee delle Bobbettes; ama i gruppi femminili come le Shirelles, Patti LaBelle (che diventerà sua amica) and the Blue Belles, i gruppi Motown, Curtis Mayfield (il suo falsetto molto deve ai modelli maschili) e poi Billie Holiday, Nina Simone, John Coltrane, Miles Davis.

Le sue canzoni esplodono per la miscela di R&b, soul, gospel, jazz, pop alla Brill Building, musical di Broadway, ma un ruolo fondamentale ce l’ha il temperamento: «Quando si tratta di scrivere canzoni, non mi interessano i limiti convenzionali. Le mie composizioni possono avere una prospettiva femminista, perché è così che vedo la vita. Mi interessa l’arte, la poesia e la musica, per questo come artista posso dire e fare qualsiasi cosa». Riascoltando oggi i suoi album colpisce l’intensità dell’interpretazione, sia nel modo di suonare il pianoforte sia nella voce da soprano intrisa di gospel e jazz, capace di grande controllo e di emettere grida viscerali. Lei si definiva una poetessa e una cantante soul, i suoi dischi erano pura avanguardia pop.

Nel 1971, a 24 anni, già stanca delle angustie del music business, Laura si ritira dalle scene, lascia l’amata New York e va a vivere in campagna con il marito, un falegname reduce del Vietnam . Il matrimonio dura poco, si separano nel ‘75. Poi per quasi vent’anni la sua compagna sarà la pittrice Maria Desiderio.
La sua discografia migliore è quella dei primi cinque album, pubblicati al ritmo di uno all’anno dal ‘67 al ‘71. L’ultimo, Gonna Take a Miracle, insieme al trio Labelle, è una raccolta di cover dei suoi classici preferiti del soul. Dopo cinque anni di silenzio, Smile esce nel 1976: dedicato alla madre morta l’anno prima, mostra un interesse per la musica orientale e la cultura cinese, mentre la disillusione verso l’industria discografica è espressa in Money. Come il successivo Nested, sono album di pop egregio, ma senza più quello slancio creativo furioso e audace dei precedenti. Sono dischi casalinghi, concepiti nel nido rurale in cui ormai vive la ex ragazza di New York che ora compone canzoni che parlano di maternità e femminilità, sempre più spirituali. Laura dedica canzoni ai diritti dei nativi americani, abbraccia la causa ambientalista e animalista.

Il suo è un ecofemminismo incline alla new age, qualcuno la definisce una tree hugger e non è un complimento. Solo due album negli anni ‘80: Mother’s Spiritual, pacato, lontano dal suono avventuroso e sperimentale di Eli o Tendaberry, e un Live at the Bottom Line, il locale di New York a cui è affezionata e dove tiene i suoi concerti natalizi per familiari, amici e fan devoti. Walk the Dog and Light the Light del ’93 sarà il suo ultimo vero disco. Nel ’94 è di nuovo in studio, ma Angel in the Dark uscirà postumo. Farà in tempo a vedere la pubblicazione della doppia antologia da lei stessa curata, Stoned Soul Picnic: The Best of Laura Nyro, prima di morire di carcinoma ovarico a 49 anni nell’aprile del ‘97, come sua madre alla stessa età. A lei e al nonno materno è dedicata una delle sue ultime canzoni, Triple Goddess Twilight: «Madre, sei morta giovane e mi hai lasciato i tuoi colori crepuscolari. Rosé, ah borgogna, una nebbia di corallo. Quali sono le sfumature della solitudine?»