Nella prefazione a quel grandioso tentativo di manomissione del tempo lineare che è la Montagna incantata, Thomas Mann osservava come la storia di Hans Castorp, «molto più vecchia dei suoi anni», fosse irriducibile alle unità di misura convenzionali con cui si è soliti rilevare il trascorrere della vita: «la sua età non si può calcolare a giorni, né la sua grave anzianità a giri di sole; deve, insomma, la misura del suo passato non proprio al ‘tempo’». Del resto, come tale categoria fosse assolutamente opinabile Hans lo aveva scoperto appena messo piede nella stazioncina di Davos-Dorf, grazie all’avvertimento del cugino Joachim: «Qui ti manipolano il tempo altrui come non puoi immaginare».

Per cui è tanto più significativo che Marco Scotini abbia scelto di intitolare The Measuring of Time l’ampia retrospettiva dedicata a Laura Grisi che sarà visitabile fino a dicembre al Muzeum Susch in Engadina, a neppure una trentina di chilometri di distanza dalla località in cui il romanziere tedesco aveva situato nel 1924 il sanatorio (fittizio, ma non troppo) di Berghof.
Se infatti l’immersione di Castorp nell’atemporalità trovava comunque una sua collocazione storica in quel «passato prossimo» antecedente la Grande Guerra mitizzato dalla cultura modernista, la traiettoria creativa dell’artista nata a Rodi nel 1939 si compie in un orizzonte ormai esploso, dove l’esistenza di gerarchie precise viene messa in discussione e la successione finalistica tra un «prima» e un «dopo» cede il passo a quel che il curatore chiama «ordine dell’imponderabile».

PER GRISI il corpo a corpo col tempo e le sue manifestazioni ha inizio verso la metà degli anni Sessanta, allorché comincia a riflettere sulla pretesa capacità del medium fotografico di cogliere l’attimo e di scomporre il reale in una sequenza di frammenti oggettivi. Ciò d’altronde non stupisce, considerando che l’artista tra il 1958 e il 1964, armata di Hasselblad e di Rolleiflex, scatta migliaia di fotografie nello stile documentario á la Magnum durante i viaggi che, insieme al marito Folco Quilici, la vedranno in America Latina, poi in Ciad, Camerun, Tunisia, Nigeria, Alto Volta, Niger, Dahomey, Togo, nelle isole Sottovento della Polinesia e infine nel sud-est asiatico. Sarà proprio quest’esperienza – fissare meccanicamente i riti ancestrali, i costumi, gli ecosistemi delle ultime popolazioni tribali esistenti, prima della loro fatale sparizione – a innescare quell’interesse per le condizioni che determinano la nostra percezione sensibile che accompagnerà Grisi nel corso dei decenni successivi, condensandosi in una ricerca che, benché portata avanti con rigore quasi scientifico, produrrà esiti di grande intensità lirica.

Lo dimostra già il dittico polimaterico Omaggio a Constable-Omaggio a Gainsborough, presentato nel 1966 alla XXXIII Biennale di Venezia. Qui all’arresto del tempo connaturato all’istantanea fotografica (ma anche alla stasi del paesaggio pittorico tradizionale) si contrappongono le immagini pluristratificate che lo spettatore può creare liberamente, muovendo una serie di pannelli scorrevoli di plexiglass trasparente.

ELEMENTI VARIABILI e sovrapponibili quali nuvole, colline, onde, ispirati all’estetica Pop, disintegrano l’unicità della percezione singola, rivelando la natura relativa e infinita dello spazio. Tale tendenza si fa sempre più evidente negli anni successivi, quando al formato della finestra subentrano strutture a scatola che inglobano il «panorama», spostando la visione dall’esterno all’interno e proiettandola in lisergici abissi urbani (East Village, Subway). Qui la leggibilità dell’immagine è ulteriormente perturbata da effetti nebulosi creati da tubi al neon inseriti nello spessore, oppure da filtri o schermi che instaurano non solo una spazialità, ma anche una temporalità complessa.

Questa consapevolezza del carattere «atmosferico» della visione prelude ai lavori degli anni 1968-1969, in cui Laura Grisi abbandona del tutto la pittura per dedicarsi alla realizzazione di «ambienti» mediante il ricorso a elementi naturali quali nebbia, vento, acqua, calore. L’utilizzo dei materiali più evanescenti e impercettibili (l’aria, ad esempio, che per l’artista altro non è se non «la certezza visiva di uno spazio») si accompagna a un paradossale, strenuo arrovellarsi sull’aspetto della loro misurabilità. Nel primo film da lei girato con una cinepresa 16 mm, Wind Speed 40 knots (1968) Grisi tenta di visualizzare il vento rilevandone l’intensità con un anemometro (ovviamente analogico), mentre nel frammento video che dà il titolo alla mostra l’impresa impossibile di contare i granelli di sabbia di una spiaggia diventa misura del tempo impiegato per (non) portarla a compimento.

Di converso, emerge un’attenzione per il rapporto tra il tutto e le parti che trova la sua estrinsecazione nelle opere del decennio successivo, quando Grisi torna alla fotografia, declinandola però in un’accezione totalmente concettuale. Nelle serie Pebbles (1973) e Stripes (1974), esposte alla galleria Leo Castelli di New York, l’artista registra tutte le sequenze possibili di una serie di elementi variabili per forma o colore, utilizzandoli come simboli matematici. La rinuncia a privilegiare una combinazione fra le tante (già implicita negli «omaggi» ai paesaggisti inglesi) sfocia dunque nella creazione mediante permutazione di una gamma sempre più estesa di immagini virtuali che appaiono significative non di per sé, bensì nel rapporto con le altre. Varianti equivalenti del possibile, queste composizioni nella loro ridondanza inscenano la contraddizione fra ciò che si lascia esperire e quanto si può pensare, diventando così oggetto di meditazione.
Alle iterazioni astratte delle strisce colorate o alle differenze naturali, imponderabili, dei ciottoli, Grisi aggiunge un ulteriore tassello quando in Hypothesis about Time, riporta la stessa immagine frontale di un cronometro ripetuta 360 volte nell’arco di un secondo.

QUI LA RELAZIONE di consequenzialità tra presente, passato e futuro viene radicalmente messa in discussione, dal momento che lo spettatore, pur consapevole di come la durata di ogni evento sia frazionabile all’infinito, non è in grado di ricostruire la successione effettiva delle immagini. Un’esperienza non dissimile a quella capitata ad Hans Castorp, testimone all’ombra della montagna incantata dell’indistinguibile girotondo di attimi in cui si consuma la nostra esistenza: «Danzano in giubilo queste candide creature intorno alla fiamma, per malinconica allegrezza e per allegra malinconia, lo fanno per disperazione positiva, se vuoi dire così, per onorare la burla del cerchio e l’eternità senza durevole direzione, nella quale tutto ritorna».

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SCHEDA. La meta preferita degli intellettuali

Approdato a Davos nel 1912 al seguito di una moglie estenuata dalla tisi e dalle gravidanze, Mann non fu certo l’unico a respirare quella «aria delle lontananze», capace a suo dire di trasformare persino «il pedante borghese in una specie di vagabondo». L’altipiano che dal passo del Maloja (1815 m s.l.m.) conduce dalla Val Bregaglia all’Engadina fu nella Belle Époque meta privilegiata degli intellettuali europei, a partire da Nietzsche che tra il 1881 e il 1888 trascorse sette estati di fila a Sils Maria, uno dei tanti villaggi di lingua romancia i cui nomi «di una dolcezza strana che ricorda l’Italia» piacevano anche a Proust. Se Giovanni Segantini cercherà di racchiudere a 360 gradi il panorama dell’Engadina nel suo irrealizzato Padiglione per l’Esposizione Universale del 1900, più sferzante si rivelerà invece Stefan Zweig che nell’articolo «Gli spensierati di St. Moritz» fustigò i «nuovi ricchi» che nel 1918 si godevano lassù la vita, incuranti delle distruzioni arrecate dalla guerra. A poche decine di chilometri, nel villaggio di Susch, abitato da sole 200 persone, sorge in un ex monastero e birrificio, un nuovo museo d’arte contemporanea fondato dalla collezionista polacca Grazyna Kulczyc e diretto da Krzysztof Kosciuczuk che a opere realizzate in situ (Miroslaw Balka, Monika Sosnowska, Helen Chadwick) affianca mostre dedicate principalmente ad artiste.