Si chiamava Immacolata Villani, la trentunenne che ieri a Terzigno (in provincia di Napoli) ha perso la vita a causa di un colpo di pistola infertole dal marito. Erano le 8.20 quando, dopo aver lasciato la figlia di 9 anni alla scuola elementare nel quartiere di Boccia al Mauro, in seguito a una discussione, è stata raggiunta dall’uomo che l’ha uccisa e poi si è dileguato; il marito di Immacolata, che non accettava la separazione, già denunciato per maltrattamenti, ha lasciato una lettera in cui segnalava le sue intenzioni. In circostanze drammaticamente simili, nel 2015 e proprio a Terzigno, un’altra trentunenne, Vincenza Avino, era stata uccisa dall’ex fidanzato. «Sono sconcertato – dichiara Francesco Ranieri, il sindaco del piccolo centro nel napoletano – non ho parole per quello che è successo. Come comune di Terzigno abbiamo fatto tanto in termini di prevenzione sui casi di femminicidio. Evidentemente non basta, dobbiamo fare ancora di più».

Pochi giorni fa è stata invece la volta di Laura Petrolito, ventenne ritrovata in un pozzo a Canicattini Bagni, nel siracusano. Uccisa dal proprio compagno che prima l’ha ripetutamente accoltellata e poi buttata giù. Era il padre della seconda figlia – appena otto mesi – di Laura. Anche qui, come è ragionevole e quasi ovvio che si rappresenti pubblicamente, la comunità è sconvolta. La sindaca Marilena Miceli commenta la «notizia drammatica», aggiungendo che «una donna, una giovane mamma, non può morire in questo modo violento».

Il copione è tragicamente lo stesso, sulla violenza maschile contro le donne non si dovrebbe cedere di un passo, sostenere il più possibile i centri antiviolenza e i percorsi di libertà intrapresi dalle donne; comprese le legittime denunce verso i maltrattanti, denunce che pur tuttavia vengono quasi costantemente disattese. Si sarebbero potute forse salvare delle donne, divenute invece vittime di femminicidio e non così distanti in termini temporali dagli ultimi accadimenti?

Se vogliamo continuare a contarci vive, come ha detto di recente un bello slogan della manifestazione romana di Non Una Di Meno e come ripetono in molte da anni, non saranno sufficienti i cordogli istituzionali né il rubricare ogni femminicidio secondo la circostanza. La violenza maschile contro le donne è un fenomeno sistemico che deve essere compreso per quello che è, assunto come un dato che determina una andatura costante; essere uccise dal proprio compagno, dal proprio marito, dal proprio ex, da qualcuno (più raramente, ma accade anche questo) che decide non di gestire l’abbandono, ma di togliere la libertà a una donna. Ultimamente (ma anche qui non è una novità visto che dei figli e delle figlie – cioè di chi rimane nell’orfanità – non si parla quasi mai) i bambini e le bambine, quando non vengono uccisi anche loro – come nel caso delle due figlie di Antonietta Gargiulo – restano in uno sfondo di indistinta violenza di ritorno. Non è però secondaria neppure quella violenza, con il suo portato di distruzione massima programmata dai vari padri, un po’ per punire le proprie ex compagne e un po’ perché in fondo di questa infanzia vulnerabile difficilmente qualcuno si fa carico. Oltre al ragionevole cordoglio, dunque, andrà chiarito che se non si prendono provvedimenti seri, se non si sostengono e sponsorizzano di più le pratiche dei centri antiviolenza nei vari territori, se non si dà seguito alla denuncia di chi dice di essere stata maltrattata e si sente in pericolo di vita, allora il problema è più grave di come sembra. Perché oltre a ignorare che la violenza maschile contro le donne sia un problema e un guasto sistemico, lo si continuerà a collocare nella eventualità di una vita qualunque. Eppure salutava sempre, quel padre e quel marito così devoto e mite.