È stato un anno notevole per Laura Dern: la reunion con David Lynch in Twin Peaks, l’interpretazione valsa un Emmy e un Golden Globe per Big Little Lies di Jean Marc Vallée e perfino un ruolo in Guerre Stellari. E poi la parte da protagonista in The Tale di Jennifer Fox, fra i film più applauditi dell’ultimo Sundance e che stasera alle 21.15 Sky Cinema Uno trasmette in prima tv.

Fox, documentarista di successo (My Reincarnation, POV), racconta la storia autobiografica dell’abuso di una tredicenne per mano dell’allenatore di atletica, il cui ricordo riaffiora in una donna adulta ormai film maker affermata, professionista di successo nel lavoro e nella relazione col compagno. Il ritrovamento di un diario delle medie da parte della madre (Ellen Burstyn) fa riemergere un estate sbiadita dalla rimozione cui era stata relegata.

Film di attualità in questo momento di presa di coscienza culturale sull’argomento, compresi scandali tra l’altro che hanno investito in Usa gli allenatori delle squadre olimpiche femminili di nuoto e ginnastica – ma che va ben al di là della semplice denuncia «sociale». Una sceneggiatura perfetta per lei, come ci ha spiegato la stessa Laura Dern.

Come ha trovato questo progetto?

Conoscevo Jennifer Fox per i suoi documentari e la prima chiamata che ho ricevuto è stata quella di Brian De Palma, la seconda da Oren Moverman, anche loro conoscevano il suo lavoro e l’ammiravano. Entrambi mi hanno detto che stava sviluppando questo progetto e mi hanno detto di non perdere l’occasione. Credo che tutti ci siamo innamorati di film per la forza visiva ma in fin dei conti è sempre la storia che conta. Poi il coraggio di una regista di raccontarne una così personale e intima…non solo per esservi sopravvissuta ma per l’idea di esplorare la memoria e le storie che raccontiamo a noi stesse, mi è sembrato straordinario.

Un tema molto attuale…

Le statistiche solo in questo paese sono scioccanti e nel 93% dei casi per mano di qualche conoscente. Storie come queste coinvolgono di solito qualcuno in famiglia o amici. Non è la prima volta che vengono raccontate ma il nostro film parla anche di come sia possibile subire un trauma di questo tipo e vivere comunque una vita piena, superare la condizione di vittima. Quella di Jennifer è la storia di una donna che per sopravvivere al trauma convince se stessa che la violenza era in realtà una prima storia d’amore. Da adulta è costretta a rivivere quell’esperienza per poterla infine elaborare. Ho trovato affascinante interpretare un personaggio che esce come da un anestesia, gradualmente.

Una vicenda importante da raccontare, quindi, e anche un esempio

Jennifer riesce ad affrontare la propria esperienza dopo anni passati a raccogliere storie di donne nei propri documentari. Credo che con questo film speri in parte di avere lo stesso effetto sulle spettatrici: creare uno spazio sicuro per riconoscere ed affrontare la verità. Solo così si può davvero andare oltre la rimozione e la vergogna. Stiamo tutti imparando insieme. In passato certi comportamenti maschili, vere e proprie molestie, venivano archiviati come corteggiamenti. La società deve affrontare un processo di rieducazione riguardo ciò che è o non è accettabile, reagire alla mentalità di Donald Trump per cui è lecito «afferrare le donne, se così ti piace», usarle come fossero oggetti. Un’affermazione che ha provocato la reazione di una nuova generazione di ragazze come quella delle mie figlie, che osservavano la campagna elettorale e si sono dette ‘Cos’ha detto quello? Come sarebbe …!?’ Loro sono cresciute in un mondo del tutto diverso e hanno dovuto apprendere dai propri genitori che sì, una volta era effettivamente così, la gente pensava di poter fare come voleva…il far west. Ho apprezzato molto che The Tale affrontasse anche questo tipo di evoluzione…quante volte ho sentito dire ‘Allora era diverso…erano gli anni ’70… Ora con il movimento #TimesUp se ne parla ma allora nessun genitore faceva certi discorsi alle proprie figlie. Io facevo film a 12, 13 anni e ricordo benissimo i provini che si facevano allo Chateau (Marmont, ndr). Si andava su e ci si sedeva sul letto a leggere le battute con un regista e senza nessun altro nella stanza. Poi magari non succedeva niente, ma nessun genitore si preoccupava di essere protettivo più di tanto. È una nuova era ed è bello affrontarla anche con le storie che racconta il cinema. Come genitore sento forte il bisogno di parlare con la nuova generazione dell’importanza delle giuste linee di confine e di poterle stabilire da se, rispettando se stesse.

I suoi genitori – gli attori Bruce Dern e Diane Ladd – recitano ancora, come è stato crescere nel business di…famiglia?

Loro amano il loro lavoro e sono certa che passeranno i loro 80 e 90 a recitare. Lo so perché hanno il bisogno perpetuo che sente un attore di raggiungere uno stato di comprensione e di verità. Per me il lavoro è una lezione costante di compassione e tolleranza. Di immedesimazione nel punto di vista ‘altro’. È ciò che accomuna attori ed autori, soprattutto alcuni di loro che ormai sembrano parte della mia famiglia, come David Lynch. Lui può chiedermi di interpretare i personaggi più scostanti, più orribili e cattivi ed io sarò sempre là, solo per sedere con lui a sorseggiare un cappuccino e far finta che sia lavoro (ride, ndr). Sono davvero più che fortunata perché ero bambina nei 70 quando i miei lavoravano con alcuni dei nostri registi preferiti. Li osservavo ed è quello che mi ha convinta a fare l’attrice – quei momenti con Hal Ashby e Marty Scorsese, e la lista continua…..a 5,6,7 anni ricordo i miei con Alfred Hitchcock. C’era sempre quella “cosa”, quella collaborazione: ‘prova a fare così….è questo che intendevi? ….quei momenti magici a cui ho potuto assistere. La mia carriera avrebbe potuto andare in mille direzioni quando ho iniziato, ma mi hanno chiamato subito Peter Bogdanovich e Robert Altman, David Lynch. Sono stata immensamente fortunata che siano stati loro a scoprirmi per primi. Mi ha reso, uno, viziatissima e, due, cosciente di ciò che desideravo.