Tria si era già detto «personalmente favorevole», Conte non lo esclude. E adesso perfino il presidente degli industriali Vincenzo Boccia apre alla possibilità. L’aumento dell’Iva non è più un argomento tabù.
Sarà perché i 25 miliardi da trovare per disinnescare le fatidiche clausole di salvaguardia – aumenti automatici di aliquote Iva nel caso in cui non si raggiungano una serie di obiettivi del bilancio – sono tanti, sarà perché dopo otto anni – il primo ad inventarsele fu Tremonti nella manovra del governo Berlusconi del 2011 ma poi fu copiato da tutti i successori Monti, Letta, Renzi, Gentiloni – continuare a spostare anno dopo anno il fardello inizia a stancare.

Certo, difficile che in piena campagna elettorale per le Europee sia Di Maio che Salvini rischieranno di dirsi favorevole ad un argomento come l’aumento dell’Iva ma il fronte trasversale di chi sostiene che l’effetto economico non sia così negativo come si è sempre dato per assodato inizia ad inspessirsi.

A PASSARE SAREBBE – QUASI incredibilmente – la linea del professor Tria, traballante ministro dell’Economia: «È utile spostare il carico fiscale dalle persone (Irpef) ai consumi (Iva)». Anche perché il tutto sarebbe legato alla mitica riforma fiscale o simil Flat tax che sia. Ora con la benedizione di una Confindustria che inizia a lodare il governo finora criticato: «Con il governo il clima è cambiato, nelle ultime settimane abbiamo notato un diverso linguaggio e la volontà di confrontarsi su alcune proposte», ha scandito Boccia al Corriere. E ieri sull’Iva ha aggiunto: «Se il governo intendesse fare una vera riforma fiscale che agevoli i cosiddetti produttori, imprese e lavoratori, quindi un’operazione macro, che non riguardi solo le clausole di salvaguardia Iva, sarebbe arrivato il momento di pensarci: una parte dei nostri settori, quelli legati al largo consumo, non l’amerebbe, ma con un’equa attenzione al mondo della produzione e alle fasce cosiddette deboli potrebbe essere una riforma che ha il suo perché».

AL MOMENTO L’EVENTUALITÀ non sussiste. Il Def che verrà approvato in Parlamento impegnerà il governo a «disinnescare» le clausole facendo leva su tagli di spesa (spending review) e riordino degli sgravi fiscali (tax expenditure). Il tutto per evitare che l’aliquota Iva ordinaria aumenti nel 2020 dal 22 al 24,9% e al 25% nel 2021, la manovra Conte ha fissato gli incrementi rispettivamente al 25,2 e al 26,5%. Resta invece confermato l’aumento, sempre dal 2020, dell’aliquota intermedia dal 10 al 13%.

E SEMPRE IERI BANKITALIA ha stimato che senza gli aumenti automatici dell’Iva – o misure alternative – il deficit schizzerebbe al 3,4% quest’anno, mentre il debito andrebbe al 135,4%, avverte il presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio Giuseppe Pisauro. La manovra quindi diventa un «puzzle complesso», come lo definisce l’Upb, nonostante apprezzi – come il presidente dell’Istat leghista Blangiardo – come «condivisibile» la nuova stima di crescita allo 0,2% – corretta a soli 4 mesi dall’indicazione di un +1% – sebbene molto dipendente dal contesto globale e da come finirà la guerra dei dazi Usa-Cina.

Bankitalia invece non cambia strada alla voce «spread» e «taglio del debito». Se il differenziale con i titoli tedeschi resterà ai livelli attuali per via Nazionale si mangerà 11 miliardi in spesa per interessi da qui al 2021 sottraendo 0,1 punti di Pil dopo un anno e ben 0,7 punti dopo tre: l’obiettivo, spiega il capoeconomista Gaiotti, è al contrario dare agli investitori un «messaggio credibile di riduzione del debito pubblico».

SUL DEBITO PESA PERÒ l’incognita di incassi da privatizzazione stimati in 17,8 e 5,5 miliardi nel 2019 e 2020 rispettivamente. Ma è nuovamente Bankitalia a certificare che i target sono stati «sistematicamente» delusi in passato. L’Upb parla del rischio concreto che quel programma ambizioso di dismissioni possa rivelarsi «in tutto o in parte inattuabile». Esattamente come è successo con tutti i governi finora. Confermando che le politiche economiche – su Iva e calo del debito – sono sempre le stesse. E sempre fallite.