La notte più nera è quella che raggiunge all’improvviso, quando il corpo cede a un fuoco d’artificio che attraversa la testa e la sonnolenza lascia il posto a una deflagrazione inaspettata. Qualcosa di simile viene descritto anche dalla protagonista di Sangre en el ojo, un romanzo magnifico e altrettanto crudele scritto da Lina Meruane nel 2012, tradotto l’anno successivo da Luca Mariotti per La Nuova Frontiera.
Durante una festa, Lucina, detta anche Lina, ha un’emorragia retinale che la priverà della vista, seguirà uno stato di attesa sfinente dell’intervento chirurgico per porvi rimedio e una esistenza che cambia definitivamente di segno. Con il suo compagno, con sua madre e con chi le starà accanto nonostante la sua furia, intraprenderà un viaggio di consapevolezza non semplice fatto di immagini e ricordi imprendibili.
Lontano dalla metafora utilizzata da Saramago, la cecità raccontata da Meruane attraverso Lucina/Lina, alter ego dell’autrice cilena – tra le più brillanti della sua generazione e di talento mirabile nel panorama della contemporanea letteratura latinoamericana – è conficcata nei sensi tutti. Esplosivo e ingovernabile è infatti il corpo di chi subisce una grande ingiustizia. Anche quando si tratta del sangue «più commovente e bello mai visto. Il più inaudito. Il più spaventoso». A pervadere è una rabbia che drena il dolore, un’allucinazione, fino a riconoscersi carnefici verso i propri cari. Perché è un tradimento, questo male non richiesto eppure presagito, che non si sarebbe mai desiderato per sé, difficile condividerlo con moderata retorica sentimentale.
Classe 1970, Lina Meruane vive e lavora tra il Cile e New York dove insegna all’Università e ha diretto la casa editrice Brutas Editoras, esperienza cominciata con Soledad Marambio nel 2011 e ora conclusa ma che ha pubblicato tanti buoni nomi (tra gli altri Fernanda Trías, Andrés Barba e Juan Villoro).
Esordisce nel 1998 con la raccolta di racconti Las infantas, poi – insieme a Sangue negli occhi, unico suo romanzo leggibile in italiano – Postuma e Cercada (entrambi del 2000), infine Fruta podrida (2007); accanto ai testi narrativi, un volumetto di cronicas di viaggio, Volverse Palestina (2013) e un piccolo e controverso saggio dal titolo Contra los Hijos (2014).
In questi giorni è in Italia, in occasione di Book Pride, dove si concentrerà (insieme a Barbara Garlaschelli) sulla figura di Frida Kahlo.

A Milano discuterà del corpo biologico come sintomo della crisi del corpo politico e sociale, a partire dall’artista messicana. In che modo si è interrogata a riguardo e che cosa significa la sua esperienza?
Frida Kahlo è una delle prime artiste a rappresentare il suo corpo sofferente nella pittura. Era una donna con certi privilegi culturali, ma non è il suo luogo di privilegio che sceglie di mostrare, bensì quello della sua vulnerabilità, di dolore, di conflitto personale. Il suo corpo abbandona il silenzio di una donna del suo tempo e irrompe nell’ordine del politico: l’esposizione del personale è un modo per rendersi presente nel corpo politico e disorganizzare le sue convenzioni. Mi è sembrato molto audace, il rifiuto del modello utile o la convenzione della sottomessa bellezza femminile. Proporre invece quell’altra bellezza, ridefinisce l’estetica e il corpo femminile nell’arte.

Il suo libro «Sangue negli occhi» tratta diversi temi, da sottofondo la provvisorietà e l’allarme, quando si convive con qualcosa di inaddomesticabile che sfugge al controllo. È il caso della malattia, al centro sia di questo che di «Fruta Podrida». Che ruolo ha e ha avuto nella sua scrittura questo argomento?
Tutto ciò che appare nel libro è un punto di partenza. La domanda che mi interessava di più era il modo in cui un paziente può invertire e ribaltare la propria fragilità, il proprio luogo vulnerabile, resistere oppure piegarsi a discorsi medici autoritari. I miei due romanzi contengono questa domanda, in Fruta Podrida il protagonista resiste e si ribella, protesta. In Sangue negli occhi si trova invece nella medicina un complice per ottenere ciò che si vuole, per recuperare la propria salute. Costi quel che costi e chiunque cadrà.

Lucina/Lina, protagonista di «Sangue negli occhi», fa esperienza della perdita della vista, seppure temporanea. È sì una storia di resistenza ma pure di spietatezza per qualcosa di indigeribile. La cecità è anche quella nei confronti dell’amore e di ciò che si dovrebbe a se stesse. È così?
Sì, e cioè che la visione – intesa come poter vedere – si riferisce sempre a un’idea di potere, che non è solo una possibilità; la sua mancanza a un’idea di debolezza. Ecco perché diventa imperativo recuperare la vista, non perdersi completamente, per recuperare, per riprendersi nel senso ampio di questa parola. L’amore diventa un veicolo e la protagonista comprende che la «prova d’amore», a cui le donne spesso si sottopongono, può essere invertita.

Se lo sfondo di «Sangue negli occhi» è il Cile dell’infanzia e New York dell’età adulta, in «Volverse Palestina» vi è una riappropriazione più antica, quella delle radici della propria famiglia appunto di remota origine palestinese. In che modo i luoghi dialogano con ciò che scrive?
Ho detto prima che sono interessata ai modi in cui viene esercitato il potere. Anche i luoghi possiedono i loro poteri oltre al loro prestigio. Ci sono centri e ci sono periferie e i miei personaggi, come me, viaggiano e si muovono in entrambi, li investigano, li osservano. Questi scenari mi interessano, ma non come paesaggi piuttosto come simboli. Almeno nei romanzi.
Quando viaggio in Palestina, capisco che questo posto è un centro nevralgico in cui queste tensioni sono vissute quotidianamente, perché quella terra, quella dei miei nonni, è sempre stata un luogo di discussione. Sotto i turchi, sotto gli inglesi, sotto gli israeliani. Questo lo rende uno spazio per porsi quelle domande sull’appartenenza, la memoria, la violenza, la solidarietà, la resistenza. È stato davvero liberatorio per me scrivere quel libro.

«Ho sospeso il futuro mentre spremo fino alla buccia, assetata, il presente». Nel corso delle sue scritture, la frammentazione accoglie sempre un potente languore di trasformazione. Quali sono le autrici e gli autori di suo riferimento?
Leggo con interesse chi lavora sulla tensione del corpo nel contesto politico, ma non così direttamente, diciamo in modo letterario. Quegli autori che vedono nella loro scrittura, nella materialità del linguaggio, una possibilità di sovversione delle convenzioni. Penso a scrittori come l’argentino Jorge Barón Biza, la brasiliana Clarice Lispector, e i cileni Diamela Eltit e Carlos Droguett. Se qualcuno di loro circola poco in Italia, mi riferisco a uno degli autori ai quali torno sempre, Samuel Beckett.