«Sono una donna. Lavoro nella grafica pubblicitaria. Sono tecnicamente ebrea. Vivo a New York. Sono un’amica, una figlia, una sorella, una zia». Mentre nella sua testa pensa «Sono sola. Sono un’ex artista. Sono un’urlatrice a letto. Sono il capitano di una nave che affonda che è la mia carne».
A parlare di sé alla propria psicoanalista è Andrea Bern, alle soglie dei suoi quarant’anni, protagonista dello splendido romanzo di Jami Attenberg, Da grande, pubblicato di recente da Giuntina – editrice che ha tradotto anche i suoi precdenti (pp. 160, euro 15, traduzione di Viola Di Grado).

È UNA PROFESSIONISTA, Andrea, reduce dalla delusione di non poter fare della propria passione per il disegno niente più che qualche schizzo casalingo, si guadagna da vivere in modo dignitoso. Vive le peripezie dell’abitare in una grande città. È single e conduce, per certi versi, una adolescenza simile a quelle che a fasi alterne capitano in vari periodi della umana esistenza. Sembra colma di angoscia ma si tratta di uno stato di sofferenza malmostosa per non essere ancora riuscita a liberarsi dalla propria famiglia disfunzionale; un padre inservibile anche da morto, una madre intermittente e anaffettiva, un fratello musicista con una figlia cerebrolesa dalla nascita che non si sa quanto ancora andrà avanti. E i suoi amanti, vari ma soprattutto eventuali. In realtà sono dolori piccoli eppure talmente conficcati che, paradossalmente, basterebbe poco per eroderli. Un abbraccio, forse. Molti. Chiudere gli occhi e affidarsi alle cose semplici. All’essere toccata.

Come si diventa adulte lo racconta bene Jami Attenberg, ospite domani nell’ambito di Pordenonelegge, che abbiamo raggiunto per qualche domanda. «Andrea è una creatura non convenzionale, divertente, audace, premeva per essere messa sulla pagina, per arrivare al mondo. Ho scritto il libro a più riprese cominciandolo nel 2014 e poi concludendolo due anni dopo». Come si accetta l’oscuro di un’ambivalenza tutta da mantenere significa rigiocarsi il peso di non corrispondere al modello che ci si è immaginate per sé. Attenberg, grande lettrice di Raymond Carver, Toni Morrison e Flannery O’Connor, misura ogni parola per distillarla in una narrazione veritiera, con significati che non percorrono la strada del superfluo bensì dello scarno, e per questo chiaro, senso di una ulteriorità. «Tra le mie letture più recenti c’è il lavoro di Meg Wolitzer, per esempio, e leggo anche tanta poesia. Adoro Ada Limon e Morgan Parker. Mi piace tutto ciò che ha una voce fresca, originale e un ordito avvincente». Desiderano senza artificiosità, le protagoniste letterarie di Jami Attenberg, combattono per difendere il proprio sentire, ancor prima di averlo precisato a se stesse.

«Un personaggio è interessante solo se è complesso, stratificato. Come del resto accade nella quotidianità. E complessi lo siamo nostro malgrado tutti, contraddittori. Ecco perché quando Andrea ammette nella sua mente una parte della sua identità più difettosa è anche la più immediata e autentica, arrivata alla mia mente tra le prime caratteristiche a lei inerenti». Anche nel suo Santa Mazie (Giuntina 2016), sceglie di raccontare la storia di una eccentrica e appassionata Mazie Phillips che negli anni Quaranta si poteva incrociare tra la Bowery e Chinatown a parlare con i diseredati, la notte – finito il lavoro al cinema Venice – lei tra loro e insieme. Sempre. Anche se Mazie è una donna realmente vissuta che ha imposto ad Attenberg una ricerca di carattere storico, lo scavo è quello su figure di donne che riescano a restituire l’intero prisma della irriducibilità femminile. Così anche il flusso di coscienza a cui si affida Andrea, che nelle strade di New York è invece una privilegiata, narra di una storia di libertà.
«Scriverò sempre a proposito di donne, sulle asperità di storie da scoprire – prosegue Attenberg – per scardinare le regole e la ruolizzazione che spesso viene offerta dallo specchio sociale. Trovo i profili delle donne decisamente più interessanti e attraenti di quelli maschili. Raccontare una donna è qualcosa di inesauribile, potrei licenziare ancora altri cento libri e non sarei stanca. Sarebbe piuttosto un costante mettermi alla prova».

L’APPRENDISTATO di Andrea Bern allora non è quello di disfarsi del proprio privilegio ma «riconoscere la propria infelicità, nella coscienza di poterla modificare. Può essere ancora felice, se lo sceglie. Assumere la responsabilità delle proprie azioni, sapere di agire in un mondo che ha aspetti traumatici, che presenta dei dilemmi etici. In questa difficoltà c’è un livello precedente che appartiene alla sincerità, contemplare la possibilità di dire a se stessi cosa sta capitando». I tempi del romanzo sono sfalsati, emergono imperfetti e spesso sovrapposti per rappresentare la memoria, altro grande tema del «divenire», non si sa chi e quando ma qualcuno, qualcosa. «Andrea ha dei ricordi inaffidabili e come tali li ho ricomposti, spesso riporta cose accadutele anni prima, quando magari era ubriaca o comunque alterata. È in questa destrutturazione tuttavia che viene a presentarsi il dramma di ciò che spesso ci accade, il salto che si affaccia quando tentiamo di dare un ordine a ciò che vorremmo dimenticare. In questo Andrea è onesta, forse brutalmente onesta, vuole arrivare a una risonanza emotiva da consegnare a chi la legge. Non posso sopportare quando le cose suonano false, o quando sento che un autore sta fingendo. Ho bisogno di verità, nella mia letteratura».