Post faga resurgo, dopo la morte torno a rialzarmi. Il mito dell’araba fenice per raccontare una leggenda dei tempi moderni: Niki Lauda, tre volte campione di Formula Uno, unanimemente considerato uno dei migliori piloti di sempre, l’uomo che nelle immagini del famoso incidente che scorrono incessanti sugli schermi nel giorno della sua scomparsa, era già morto, e poi si è rialzato. È il 1 agosto del 1976, sui monti della Germania Occidentale, ha appena piovuto. Lauda è in vantaggio in classifica davanti al rivale di sempre James Hunt, pronto a vincere il suo secondo titolo consecutivo. La giornata non è cominciata bene, si era lamentato per le scarse misure di sicurezza del circuito del Nürburgring, ma nessuno lo aveva seguito, in quei giorni poi da Maranello arrivavano critiche, il matrimonio lo ha distratto, e così anche l’uomo chiamato computer, considerato un freddo calcolatore, improvvisamente sbaglia. Sceglie le gomme da pioggia, ma ha smesso, al primo giro le deve cambiare, al secondo sbaglia, ancora, alla curva del Bergwerk, la macchina si schianta sul guard-rail rimbalza in pista prende fuoco. Harald Hertl e Brett Lunger che stavano subito dietro scendono dalla monoposto e si fiondano verso le fiamme, arriva anche Arturo Merzario, che al militare ha imparato il primo soccorso, al terzo tentativo lo estrae dalle lamiere roventi e gli pratica massaggio cardiaco e respirazione artificiale.

POST FAGA RESURGO. Il coma, la ricostruzione parziale di un viso devastato dal fuoco, le palpebre per tornare a vedere, e dopo l’estrema unzione di un prete Niki Lauda torna a rialzarsi. Pochi mesi e torna alle gare, a correre in pista, a sfidare la morte. In quella fuga dalla realtà ad altissima velocità che il cantore della dromologia Paul Virilio aveva individuato come ansia di salvezza. E in effetti la fuga di Lauda comincia presto, quando a nemmeno vent’anni scappa dalla lenta e comoda rigidità morale di una facoltosa famiglia di banchieri austriaci e si indebita per cominciare a inseguire il sogno della velocità, dapprima nelle categorie minori e poi in Formula Uno e nel 1974, grazie ai buoni uffici dell’ex compagno di squadra Clay Regazzoni, alla corte di Enzo Ferrari. Lavoratore indefesso, collaudatore sopraffino, gelido calcolatore, attentissimo alla dieta e alla tenuta atletica, meticoloso in ogni aspetto della professione, l’uomo computer è protagonista di una rivalità spettacolare con James Hunt, sua nemesi e antitesi, simpatico guascone e gioviale donnaiolo, bon vivant godereccio e anticonformista, raccontata nel film Rush (2013) di Ron Howard.

Un’immagine di Niki Lauda del 2017

ED È PROPRIO Hunt a vincere quel maledetto mondiale del 1976, di un solo punto, con Lauda che rientra in pista a Monza con la pelle tirata e il volto sfigurato, senza un orecchio ma, come ripeteva sempre, con un piede destro che pigiava alla grande sull’acceleratore. Qui qualcosa si rompe tra il pilota e la scuderia, tra Niki Lauda e il patron Enzo Ferrari. Uno accusava l’altro di pensare solo al titolo costruttori, l’altro lo rimproverava di essersi ritirato al GP del Giappone, ultima prova del Mondiale, perché non sapeva più osare, non riusciva più a cercare la salvezza nella velocità. E la frattura non si ricompone più.
Lauda dopo avere vinto il mondiale nel 1975 e avere perso di un punto quello del 1976 torna a vincere quello del 1977, pur senza prendere parte alle ultime due gare proprio per rendere evidente la sua rottura con il cavallino rampante. E così nell’anno di The Man Machine dei Kraftwerk si scopre che il computer ha un’anima, e Lauda prende la prima e unica decisione che rimpiangerà per il resto della carriera: abbandonare la Ferrari per passare alla Brabham-Alfa Romeo di Bernie Ecclestone, con cui rimarrà due anni prima di ritirarsi dalla Formula Uno. Ma la magnifica ossessione per la velocità, la macchina che si fa protesi del corpo come in un romanzo di Ballard, lo portano prima verso nuove avventure, come la creazione di una compagnia aerea che porta il suo nome, Lauda Air, poi all’inevitabile ritorno in pista, lì dove la rapidità del tutto fa sì che l’incidente sia sempre dietro l’angolo, inseguendo la morte o la salvezza. Quattro anni in McLaren, nuovi rivali che ora si chiamano Nelson Piquet, Alain Prost, Nigel Mansell, e un nuovo titolo vinto, nel 1984, prima del ritiro definitivo con 25 vittorie e 24 pole position in 171 gran premi. Poi di nuovo gli aerei, una carriera dirigenziale nel circus con la Ferrari e poi con la Mercedes, i problemi di salute, il trapianto di un polmone l’estate scorsa, i reni che non funzionano, di nuovo, e l’altro ieri la morte definitiva. A 70 anni, in una clinica svizzera.

DOPO la prima morte non ce n’è un’altra, scriveva Dylan Thomas, e invece Niki Lauda dalla prima morte è tornato perché l’aveva sempre accarezzata, a tutta velocità, forse addirittura invocata, come solo i piloti hanno voglia e coraggio di fare. «Avevo duecento milioni di debiti, la carriera andava male, tutto girava storto. In un gran premio, dopo una giunzione a T, c’era un muro molto solido. Bastava che io premessi l’acceleratore per andare dritto contro il muro a tutta velocità. Tutti avrebbero pensato a un incidente, invece sarebbe stato un vero e proprio suicidio premeditato. Poi all’ultimo momento riconobbi che ammazzarmi non sarebbe servito a niente, scalai la marcia, alzai il piede e… terminai la corsa», ha raccontato anni fa in un libro intervista.

Niki Lauda con Clay Regazzoni (1975)

SONO i suoi primi passi in Formula Uno, pochi anni prima di prendere fuoco, andare all’inferno e ritornare, come da titolo dello stesso libro. Morire e tornare a rialzarsi. L’uomo computer è sempre stato umano, e anche se era una leggenda alla fine Niki Lauda è morto davvero, come tutti. Ora di lui rimarranno in loop continuo le immagini dell’incredibile incidente, a ripetizione, sempre più ossessive. Perché l’era della velocità non è altro che l’epoca dell’incidente, e lui ce lo aveva annunciato. Non è da tutti tornare per farlo.