Questa non è una recensione (e nemmeno una pipa). Questa è una lettera d’amore. Io amo I love Dick. Amo Chris, la protagonista dissennata e libera che perde la testa nell’ossessione per Dick – avvenente artista cowboy – e per il suo «dick» (fallo in slang americano). Amo il suo sentirsi fallita come regista, il suo lento avvicinamento ad una liberazione personale (nel finale), il suo direzionare un’attrazione fatale in gesto d’arte: scrivere lettere d’amore erotiche senza freni, immaginare perversioni irrealizzabili, concentrare tutta l’energia sessuale verso un destinatario inconsapevole che non le ha mai dato un centimetro di ambiguità a cui aggrapparsi. Amo l’interpretazione folle e spietata di Kathryn Hahn, attrice caratterista dal viso irregolare e un corpo tonico di quarantenne: una donna senza figli, musa del coniuge scrittore di vent’anni più vecchio ma creativa lei stessa, straripante desiderio dopo anni di assurda castità matrimoniale. Liberare il serpente diabolico, nutrirlo, metterlo a suo agio in un contesto fuori luogo, operare un cambiamento plateale che diventa opera d’arte (come attaccare su tutti i muri di Marfa, un piccolo paesino desertico in Texas, centinaia di fogli vergati di parole oscene e pensieri proibiti, proposte pornografiche, elucubrazioni su incastri e misure).

Chris scrive a Dick (uno splendido cinquantottenne Kevin Bacon, per capirci quello di Footloose) ma, com’è giusto che sia, scrive a se stessa: non vuole più essere quella di prima, sta cercando una sagoma dentro cui entrare, i cui contorni non saranno mai modellabili da un uomo (per quanto sexy, allusivo, affascinante esso sia). Il corpo vuole la sua parte, è pronto a donarsi e a ricevere, a fremere e a godere perché nella nuova dimensione non esisteranno confini, paure, restrizioni: il fuori diventerà il dentro e il dentro combacerà col fuori. Tutto ciò – offerto su un piatto d’argento – spaventerebbe chiunque, uomo o donna che sia. La libertà fa paura. Il sesso facile fa paura. Le cose accessibili senza difficoltà fanno paura.

Ma non sarà una volontà individuale a modificare il corso degli eventi, piuttosto il corpo stesso – con una inattesa espulsione ematica – non accetterà colui che Chris ha prescelto. Questa esuberanza intellettuale tracima e contagia le donne che si trovano nel paese, giovani fanciulle che partecipano al seminario artistico di Dick: l’ambigua e bellissima Toby (che nonostante il nome maschile è una femmina, interpretata da Roberta Colindrez) inscena una danza liberatoria di uomini che accettano la donna in tutte le sue folli declinazioni.

E poi la conturbante India Menuez, una giovane sosia di Julianne Moore dai tratti ancora più pazzi, si spoglia provocatoriamente in uno spiazzale davanti a decine di operai riprendendosi con una telecamerina e ottenendo in poche ore migliaia di visualizzazioni (Meravigliosi gli inserti del film Je, tu, il, elle della regista Chantal Akerman – 1974 – in cui una donna nuda scrive lettere d’amore ad un amante assente mangiando bustine di zucchero).
Questa serie televisiva – ideata da Jill Solloway (già ideatrice di Transparent) – imperdibile, mordace, colta, sperimentale, strutturalmente solida nelle sue divagazioni, è tratta da un libro autobiografico di Chris Kraus, da cui si è in parte svincolata, diventando, a mio modesto parere, un godibilissimo manifesto di superiorità del genere femminile su quello maschile.

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