Dev’essere il momento dei quartetti d’archi strepitosi nella capitale italiana, che non si accorge di niente di ciò che accade di stimolante in campo musicale, a giudicare dal numero di ascoltatori. Una settimana fa il Quartetto Diotima ha incantato con un ciclo di quattro serate Beethoven-Schönberg-Boulez. Ora il Quartetto Arditti, come dire il massimo che c’è, anche come fama, come popolarità, porta al Parco della Musica, in una sala Santa Cecilia semivuota, un’opera-monstre di Horatiu Radulescu mai sentita da queste parti. E la fa precedere da un piccolo prezioso omaggio a Stefano Scodanibbio, di cui illustra la polimorfa vena di compositore.

Infinite to be cannot be infinite, infinite anti-be could be infinite: bè, già il titolo attira. Radulescu, romeno con cittadinanza francese, morto sessantaseienne nel 2008, ha lavorato undici anni alla realizzazione di questo che sarebbe il suo quarto Quartetto per archi, ma con l’aggiunta di una misteriosa «viola da gamba immaginaria a 128 corde». Insomma il lavoro viene eseguito da nove quartetti d’archi, di cui uno è al centro e gli altri stanno attorno. Mica facile raccontare questo brano di 50 minuti circa. È mutevole, evolve, si complica, procede per fasi.

All’inizio la base di tutto è il quartetto principale (gli Arditti, naturalmente) che suona sequenze ripetitive/ossessive, mentre gli altri quartetti – che nell’occasione sono formati dal Quartetto Sincronie, da strumentisti del Parco della Musica Contemporanea Ensemble e da giovani della JuniOrchestra dell’Accademia di Santa Cecilia – interloquiscono di rado con suoni singoli di uno degli archi oppure, con procedimento imitativo, discreto, a mezza voce, da più di uno degli archi che affollano il palco. Non si nota ancora un effetto moltiplicativo, un effetto di rifrazioni ampie e diffuse. Si nota che la materia dell’opera è costituita, secondo il criterio che appassionò Radulescu, dall’indagine, liberissima, quanto mai irregolare, degli «spettri» del suono. Analisi del suono nel senso della scuola spettralista francese, ma analisi del suono «alla Scelsi» dal punto di vista della concentrazione su pochi suoni o su una gamma ristretta di suoni. Attrazione fatale per grumi di note identiche o simili, niente di minimal, s’intende, casomai un accumulo insistito di gruppi di note.

Ma siamo nella prima fase. Poi l’insieme dell’evento musicale diventa spazializzato e magmatico. Le parti dei quartetti «secondari» si fanno più ricche, entrano tutti in gioco con maggior desiderio di seguire un itinerario che dall’«unità quartettistica espansiva» va verso l’«orchestra di solisti concertante». Si pensa a Ramifications di Ligeti, dove due gruppi di archi solisti agiscono con accordature differenziate per un quarto di tono, e l’autore stesso fu spaventato dal proprio azzardo. Qui, con Radelescu, le sequenze microtonali, timbriche/melodiche/armoniche, sono quasi un’ovvietà. Il movimento dell’opera è circolare e accentrato alternativamente. Si aggirano fantasmi bartokiani, ma si tratta di frammenti, solo frammenti. Lo schema iniziale è abbandonato, i nuclei di suoni degli «altri» quartetti diventano densi e complessi, si aggiungono polifonicamente a quelli del quartetto principale e abbiamo magnifiche dislocazioni di masse frastagliate di suoni. E ancora, con sempre maggiore mutevolezza del panorama: sciabolate sparse di suoni singoli di archi singoli, crudi «surplaces» di suoni raggrumati, proiezioni su traslucide piattaforme di acuti. Appassionante? Sì.

I quattro dell’Arditti in cattedra. Rilassati nell’intricata impresa. Prima, suonano con amore tre brevi pezzi di Stefano Scodanibbio. Irvine, il violinista fondatore e leader, è solo in My new address (1986-’88). Un curioso mix di note «senza gravità», tendenti al rumorismo, e passaggi vituosistici «paganiniani». Nelle due elaborazioni per quartetto di canzoni popolari messicane, Canción Mixteca e Bésame mucho (2005 e 2004) le melodie sono come avvolte in una bruma fascinosa. E la trama sonora è del tutto nuova.