Non è proprio come il famoso paradosso di McLuhan «L’eccesso d’informazione equivale a nessuna informazione» ma siamo da quelle parti se riflette sull’altra faccia dell’overdose contemporanea di immagini e fotografie che inondano i nostri computer, smart e le nostre vite grazie soprattutto al social di condivisione e scambio Instagram. Mostre fotografiche come quella dedicata a un’ artista quale è Dorothea Lange arrivano quindi per decongestionare il nostro sguardo, disintossicarci dal flusso visivo inarrestabile e invadente, restituirci il senso del tempo soggettivo e oggettivo della fotografia.

La mostra A visual life dedicata alla grande fotografa americana morta nel 1965 all’età di 70 anni, in corso allo Studio Trisorio di Napoli (fino al 15 settembre) con circa 30 fotografie scattate tra il 1930 e il 1940 e quella parallela The camera is a great teacher allestita a Castello di Postignano – Sellano in provincia di Perugia (fino al 9 gennaio 2017), costituiscono la più ampia retrospettiva italiana del lavoro di colei che è considerata la pioniera della fotografia documentaristica e di denuncia sociale.
Sua nipote Dyanna Taylor, autrice di numerosi documentari sugli artisti, che le ha dedicato Dorothea Lange: Grab a Hunk of Lightning (presentato in anteprima a Napoli in occasione dell’inaugurazione della mostra), parlando di sua nonna sottolinea questo aspetto dell’«unicità dello sguardo» minacciata dalla fotografia contemporanea dell’era digitale: «So che lei avrebbe apprezzato la ’democratizzazione’ della macchina fotografica, la sua accessibilità a tutti che si traduce nella comunicazione di messaggi molteplici. D’altro canto sarebbe rimasta inorridita dalle migliaia di immagini che ci invadono ogni giorno».

E delle varie illuminanti affermazioni teorico-estetiche della Lange ce n’è una che può essere l’ideale introduzione alla mostra: «Occorre usare la macchina fotografica come se il giorno dopo si dovesse perdere la vista». E in effetti osservando le sue impareggiabili foto realizzate tra il 1930 e il 1950 e riguardandole riprodotte nel bel catalogo edito dallo stesso Studio Trisorio divise per i temi che l’anno resa famosa (la Grande Depressione a San Francisco, gli emigranti, i bambini, la deportazione nippo-americana, i contadini) si ha proprio la sensazione di entrare in una sintonia esclusiva con un’artista che sapeva/voleva cogliere come pochi l’ «attimo fuggente» di un evento, un gesto, una situazione, catturare il «qui ed ora» irripetibile e irriproducibile con un dispositivo tecnico che era lei a trasformare in mezzo di onnipotenza visiva e non il contrario.

La Lange ha raccontato come nessuno le condizioni di vita nelle zone rurali degli Stati uniti, la dolorosa povertà degli agricoltori durante la Grande Depressione americana, ha documentato la realtà mettendo a fuoco con le sue pregnanti immagini non solo la disperazione e la miseria delle persone ma anche l’orgoglio e la dignità con cui affrontano il proprio destino.