Il posto è piccolissimo ed è affollato di «oggetti suggestione». Abita l’angolo numero 10 di piazza dei Quiriti a Roma ed è in perfetta risonanza con l’eleganza malinconica dell’autunno a ridosso dei platani del lungotevere. Si tratta dell’ultimo negozio di tassidermia che la signora Anna Maria Bertoni, erede di una tradizione familiare cominciata nell’800, sta per consegnare al ricordo, perché questo presente non ha più il ritmo del lavoro artigianale.

LA TASSIDERMIA è la tecnica di conservazione dei corpi animali, che vengono consegnati a una eternità di postura con trattamenti sulle loro pelli e imbottiture del loro corpo. Sono gli animali esposti nei musei di scienza o gli iconici trofei di caccia. Sono moniti del mistero che ci accompagna da sempre, quello sulla vita e la morte visto dall’ottica della pratica manuale dello smontaggio e del rimontaggio di un corpo. È proprio questa attività il vero oggetto della collettiva Taxidermy, aperta fino a sabato, in questo spazio stipato di uccelli e farfalle, scarabei e galline, che continuano a esistere con la loro vuotezza. Tra di loro, mimetizzate, si nascondono le diciotto opere degli artisti coinvolti.

L’ESPOSIZIONE ha un suo rituale: si entra in pochi perché lo spazio non permette la sosta oziosa, e ognuno ha il compito di capire dove c’è l’intervento artistico e dove invece a fare mostra di sé è la natura fissata nel tempo. E dunque l’arte riappare come forma di scomposizione e ricomposizione del mondo, dialettica perpetua tra uomo e ambiente, segno primitivo e sofisticatezze celestiali del pensiero.
Sono proprio fatte di questa materia ambigua le opere disseminate tra gli scaffali, a fianco al perpetuo stendersi del collo di un ciglio o allo stare quieto del pappagallo fermato a guardare un attorno che non esiste se non per noi, che restiamo sospesi a guardargli le piume cerulee. E poi corna, ossa, insetti, fossili, minerali e conchiglie.

FRA LE OPERE la clessidra che non scorre, Non ora non qui, di Leonardo Petrucci, curatore della mostra assieme a Barbara Reggio. Sabbia nera, un eterno di fissità, sogno-incubo dell’uomo cui sfugge che l’unico perno inamovibile è nella imbrigliabilità del cambiamento. Andreco è presente con dei monoliti, bronzi e ceramiche, alcuni ricordano le sculture involontarie degli anfratti vulcanici, angoli di isole totemiche, primitivismo eterno: scegliere di vivere tra la sciagura e la benedizione è allora l’unico atto consapevole che sottrae l’uomo all’imbalsamatura. Davide D’Elia abita una teca che sembra venire da un passato di catalogazione, spilli con lana diversa, una collezione di grovigli inestricabili, patrimonio del dubbio nell’esserci, quiete del dubbio dell’esserci, perché di tutta questa esperienza, che è l’esistere, non c’è niente che non serva.