Occhi puntati su Atene non solo da parte del mondo politico: anche i banchieri, dalla Bce in giù, attendono l’esito del voto greco. E intanto lunedì si riunirà il primo Eurogruppo del 2015, che avrà all’ordine del giorno non solo una prima analisi del «Qe» lanciato da Mario Draghi, ma anche l’esito delle elezioni elleniche: sapendo ovviamente che non si potrà ancora stabilire cosa farà il nuovo governo (sempre se sia possibile sapere subito chi lo formerà). L’opinione prevalente tra i ministri dell’Economia Ue è l’augurio/richiesta che la Grecia continui nella sua opera di risanamento, e che acceda anche dopo il 28 febbraio (data della scadenza dell’ultima tranche di aiuti) ai finanziamenti messi in campo per sostenerla. Se rifiutasse e decidesse di fare da sola (riscrivendo tutti i suoi obiettivi e i mezzi per attuarli), sarebbe un chiaro segnale di rottura.

La via di mezzo per il momento sta nella contrattazione con la Ue e la stessa Bce che potrebbe aprire il nuovo governo Tsipras (se Syriza riuscisse ad avere i seggi sufficienti per formarlo), ma è per ora una ipotesi che le cancellerie internazionali vogliono porsi solo come teorica: perché per il momento la speranza, soprattutto tra i “falchi” e i rigoristi del Nord Europa, è che la Grecia continui a perseguire il suo costosissimo “risanamento”.

Dal Forum di Davos comunque i maggiori banchieri europei hanno ammesso che il quantitative easing, per quanto a loro parere necessario e quasi obbligatorio per far ripartire l’inflazione, contenga in sé diversi rischi. Se non accompagnato da riforme fiscali e economiche, potrebbe aumentare le diseguaglianze tra paesi ricchi e poveri: perché quando aumenta l’inflazione sta meglio chi ha patrimonio, in quanto questo si rivaluta, mentre peggiora chi è a corto di redditi. Il governatore della Banca di Inghilterra, Mark Carney, ha infatti spiegato che «la politica monetaria ha sempre conseguenze redistributive»: «Servono riforme del lavoro – ha detto poi – Ma non agire e lasciare la gente senza lavoro a perdere competenze è peggio».

Dall’Italia, il governatore Ignazio Visco ha ribadito la sua fiducia nella mossa di Draghi – a differenza del suo omologo tedesco, Jens Weidman, che invece l’aveva criticata – ma non nascondendosi i limiti. Anche per Bankitalia, non si deve usare il Qe per rallentare le riforme, anzi al contrario: «La minore incertezza che deriverà dal quantitative easing porrà le basi per rendere meno costosa la realizzazione delle riforme», ha detto. Riguardo al risk sharing, «avrei preferito una piena condivisione dei rischi, coerentemente con l’obiettivo di ridurre ulteriormente la frammentazione finanziaria dell’area». Ma i rischi «sono minori di quanto non si pensi. Non bisogna dimenticare che l’operazione è open-ended: gli acquisti procederanno finché l’inflazione non sarà in linea con l’obiettivo».

Infine la Confindustria, secondo la quale il Qe regalerà all’Italia addirittura un +1.8% di Pil nel 2015 e 2016, e un risparmio di 3,2 miliardi l’anno sugli interessi per le imprese. Grazie a due fattori concomitanti: la diminuzione dei tassi sui titoli a lungo l’indebolimento del tasso di cambio effettivo dell’euro (che si quantifica dell’11,4%, in parte già avvenuto). I minori tassi alzerebbero il Pil dello 0,2% nel 2015 e dello 0,4% nel 2016; il cambio più debole dello 0,6% in ciascun anno. La spinta complessiva è, dunque, pari allo 0,8% nel 2015 e all’1,0% nel 2016. La diminuzione dei tassi sui titoli si trasmette al costo del denaro pagato dalle imprese, con un risparmio di 3,2 miliardi di euro l’anno.