La flanêrie: un nodo centrale nella produzione poetica di Baudelaire, un metodo sociologico nella biografia culturale di Benjamin. Di questo parla Letizia Carrera nel suo La flanêrie. Del camminare come metodo (Progedit, pp. 104, euro 15,00). In questa sua ultima pubblicazione, la sociologa traccia una genealogia di questa figura – il flanêur – per rivelarne dapprima la sua dimensione rivoluzionaria dentro le grandi trasformazione di fine Ottocento e inizio Novecento, e poi la sua applicazione oggi. Un idealtipo «dell’esperienza metropolitana e della modernità stessa». Perché, come fa notare l’autrice, egli è «il prodotto della città moderna, della metropoli, di cui è al tempo stesso interprete e custode».

BAUDELAIRE, si sa, ha dedicato più e più poemetti in prosa alla strada, alla città, agli spazi e ai personaggi che narravano Parigi agli albori della modernità. Spazi, relazioni e soggettività con un piede nel passato e l’altro nel futuro, privi della possibilità del vivere un presente all’altezza dell’uno o dell’altro. Ed è, infatti, proprio il poeta a intuire la «perdita della possibilità di fare» della modernità «una narrazione compiuta». Ma, per fortuna, il mondo non è rimasto senza qualcuno che potesse narrare il mondo e i suoi sistemi: «il flanêur è un narratore, è colui che sa rendere narrativa l’esperienza urbana, che sa farla parlare». Anzi, con Benjamin la flanêrie diventa «un metodo per imparare a leggere la complessità dei significati nei labirinti della modernità».

È per questo che si può affermare, come fa d’altronde Carrera, che questa postura etica «acquista […]una dimensione più propriamente politica presentandosi come uno strumento imprescindibile per affermare il proprio diritto alla città». Perché la flanêrie è una sorta di traduzione (nell’ambivalenza etimologica del verbo latino «trado») dello slogan zapatista «camminare domandando». È cioè la sua applicazione all’interno degli spazi che la metropoli offre nel presentarsi come contenitore: da un lato, questa si presenta come «mondo» – dunque, come sistema chiuso – e contenendo mondi li comprime in nome di un’unità totalizzante, dall’altro questi lo eccedono sistematicamente.

Qui entra in gioco il flanêur – «archeologo, sociologo e giornalista» con le parole di Carrera – che, nel suo processo di attraversamento della metropoli, scova le faglie del possibile aperte dalle linee di fuga della complessità che le soggettività producono costantemente vivendo la città. È nell’«eccedenza delle possibilità possibili», per usare le parole di Luhmann e di Marramao, che la flanêrie trova i corpi, i saperi, i segni che parlano all’attento vagabondo di una storia delle storie – compiute, in compimento e da compiere.

PASSANDO IN RASSEGNA anche altri importanti teorici come Simmel, Debord e Lefebvre, Carrera definisce in conclusione con le parole di Hölderlin il flanêur come chi «attraversa poeticamente la città». Chi, in altri termini, ha «uno sguardo dotato di una curiosità straordinaria, e della capacità di rintracciare analogie, connessioni e rispondenze tra i fenomeni all’apparenza più diversi». Dunque, il camminare assume una pregnanza etica nella misura in cui è in grado di permettere al corpo di attraversare gli spazi e di farsi, insieme, attraversare da essi in un processo bidirezionale senza un principio e senza una fine – costituito dal suo costituirsi.

Se il domandare può essere detto atto performativo del filosofare, Carrera ci mostra che il camminare sia il percorso che sta nel mezzo tra l’elaborazione e la pronuncia dell’atto performativo. Il flanêur può essere, oggi, considerato un’ottima forma di vita in contrapposizione non solo al turista, ma anche al consumatore di spazi: qui si gioca il conflitto tra un «camminare domandando» e un «marciare ubbidendo».